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POVERO ALVARO!

Alvaro ne aveva abbastanza.
Di quella vita non ne poteva più. Non era colpa sua se era nato idealista e sensibile, altruista, onesto, istintivo e con il cuore grande del poeta e dell'artista. Alvaro era nato nel momento e nel posto sbagliato, ma sua madre Rosita e suo padre Jose' non lo avevano di certo fatto apposta e, alla loro memoria, di questo fatto non se ne doleva.
Il succo della storia però, non sarebbe cambiato: per lui non vi era posto in quel lercio posto sottomesso, decadente e senza Dio, e di lottare tutto solo contro il mondo bastardo ed arrogante che masticava ogni principio di gusto raffinato e lo sputava via, alla sua età, ormai prossima ai cinquanta, Alvaro, quella notte buia, ne aveva veramente a sufficienza.
Alvaro era un uomo picchiato troppo sodo dalla vita: Marina, la sua prima moglie, il giorno che si era ammalato, lo aveva abbandonato e si era portata appresso le loro due amate figliole, per andare a vivere assieme a Manuel, un muchacho autoritario e benestante. Alvaro ne aveva sofferto, ma per il loro bene le aveva lasciate andare senza fiatare. Solo, indisposto e disperato, ingenuamente si era fatto soffiare le terre dei suoi generativi dalla Taglia & Assi, una compagnia che aveva sede nella capitale e che aveva ogni potere.
Alvaro si era opposto, aveva chiesto aiuto all'avvocato, un certo Don Rodolfo, un gringo furbo di tre cotte che lo aveva prima illuso e poi spennato con una parcella esagerata, sebbene avessero perduto. Dopo un po', sebbene ancora molto ammalato, Alvaro aveva conosciuto una ragazza di nome Pamela, se ne era innamorato e aveva incominciato un'altra vita.
La ragazza aveva altre cose per la testa e delle liriche poetiche del nostro protagonista non ne godeva più di tanto, né delle sue passioni, pur ricche di talento e di tanto sentimento.

La giovane, che ragionava più di tasca che di cuore, si fece tanto amare finché il romantico sognatore le diede a completa disposizione la moneta oltre che il cuore.
Quindi lo lasciò. Lo lasciò per andare a fare altro assieme a Rosario, suo cugino, un tipo molto competente nel carpire la buona fede della gente. Lo lasciò vendendosi di botto tutto quello che poteva, compresa la dimora del nostro bonaccione, che molti additarono come un imbecille, senza condannare la scaltra ragazza più di tanto, né riflettere sul fatto che la fiducia è la prima prova d'amore.
Così fu che il nostro Alvaro si trovò alla deriva, infermo, tradito, triste, deluso e amareggiato, senza una casa, senza un posto dove andare, con tanti bei romanzi pronti nel cassetto, ma tutti zitti, e da rendere di pubblico dominio. Sì, perché Alvaro era uno scrittore, uno di quelli che sudano impulso, impeto e tormento ad ogni frase che gli schizza spietatamente schietta dal di dentro. Uno di quelli che volano sulle ali delle più purissime contemplazioni del pensiero e del creato, che sgorgano emozioni, che soffrono sotto il peso di quanto vedono attraverso la maledizione della emotività e la strillano incompresi, senza cedere alle lusinghe di mediocri compromessi, e continuano a dipingere a parole quadri astratti senza essere capiti dalle masse dei distratti, ma senza rinnegare mai se stessi.
Artisti senza spazio, preda delle più intime disperazioni, malcelate in segrete sofferenze.

Nati sensibili e, quindi, già dannati, infelici e marchiati dal destino.
Alvaro, da troppo tempo, era sperduto. Il suo mondo saccheggiato, picconato e disgregato non esisteva più e in quella notte buia e piovosa, decise che non ve ne sarebbe stata un'altra uguale, non per lui, non più. Bisogna saper comprendere certi impulsi che portano l'uomo a scegliere di porre fine a questa vita, e magari rispettarlo, anche se si sa che il sole sorge sempre, anche dopo il più nero temporale.
Alvaro scese per la strada, assaporando il freddo sul suo viso bagnato dalla pioggia e dal tormento, e camminando lento, si diresse verso il mare, per tuffarsi dentro il grande padre, per nuotare verso il largo e lottare tra le onde fino a trovarsi sopraffatto, sì, ma da una morte dignitosa, e scomparire negli abissi, con un contegno suggestivo e quasi naturale. Giunto in cima al molo si volse per un ultimo e placido saluto, ma fu attratto da un qualcosa che fluttuava tra le rocce dell'approdo.
Era il corpo di una donna. Tentare di soccorrerla e di tirarla in secca fu l'impulso istintivo che di colpo prese il posto del progetto originale.
Alvaro, dunque, anziché per farla finita, quella notte buia e piovosa si tuffò nel mare, ma, per un ironico destino, per salvare un'altra vita. Trascinò la poveretta fino all'arenile e poi tentò di rianimarla con ogni mezzo, ma per la giovane ragazza non pareva esserci più niente da fare. Mentre si accaniva soffiandole il suo fiato nella bocca e premendole le mani sul petto, la luce di una pila lo sorprese nell'intento. Era il sergente Sanchez che ronzava di pattuglia, in quel posto da cani ci si conosceva tutti, e dopo un attimo di liberazione che gli procurò la vista di un possibile soccorso, Alvaro si rese conto dell'imbarazzante posizione: lui a cavalcioni di una giovane morente, con le mani sopra i seni, sulla spiaggia, in una notte senza luna.
Lui, un artista, uno scrittore, un tipo strano, abbandonato dalle donne e a torto giudicato imbestialito contro il sesso femminile... cosa caspita faceva lì a quell'ora della notte, tutto bagnato con le mani ancora strette sopra il corpo affogato di Lucia Dolores, una eccentrica, quanto bella e giovane pittrice? Il maniaco necrofilo era stato pizzicato con le mani (era proprio il caso di dirlo) ancora appiccicate al corpo del reato. Il processo contro Alvaro fu una pura formalità.

La giudice Tebalda non fece sconti a quel poeta maledetto, a quell'uomo depravato, a quello smarrito di mezza età, che per difendersi da delle accuse insostenibili, aveva commesso l'ingenuo errore di raccontare la sua pura verità, gridandosi innocente e ululando come un pazzo in tribunale, insultando poliziotti e presidente, ripetendo la storia di un suicidio andato a male.
A quel tempo e in quel paese non si andava troppo per il sottile con certi delinquenti e la stampa reclamava il mostro a penzoloni, come monito ad altri papabili assassini e come pasto di giustizia alla fame della gente.
Alvaro fu condannato alla pena capitale. Detta così sembra solo un'altra forma per portare a compimento un progetto disegnato in altro modo, ma c'è modo e modo per morire. Un conto è fuggire, scomparire tra le onde da uomo libero, sprezzante e superiore, da questo ladro mondo infame, e quasi godere nel lasciarsi avviluppare dalle romantiche e misteriose profondità del mare; ben altra cosa è un'altra implacabile beffa del destino che si accanisce contro un animo sensibile e buono, ad umiliarlo e condannarlo ad un altro, insostenibile sopruso ed una volta ancora fargli torto, senza sconti e senza spazi, e saccheggiarlo nei suoi buoni sentimenti.

Alvaro fu impiccato dalla mano esperta del boia Garcia, ma quando salì là sul patibolo era già morto, nella mente e dentro il cuore. Quando la botola si aprì non ebbe né paura, né dolore.
I suoi occhi guardavano lontano, non videro la folla che esultava e, tra la gente, non videro Marina e Manuel che chiusero gli sguardi attoniti a due incredule bambine, né Pamela, né Rosario che restavano in disparte, quasi a nascondere le proprie oscure colpe. I suoi occhi guardarono lontano, là nella poesia, dove un gabbiano volava sopra il mare, tra i tanti, belli colori del sole che pittava le nubi basse all'imbrunire.
Inutile dire che dopo il suo decesso un abile editore mise mano ai suoi romanzi, sofferenze e passioni che suonavano quasi ad epitaffio, trasformandoli in un commovente riflusso di pensiero apprezzato dalla massa, ed in un remunerativo successo. Chissà perché la morte troppo spesso è il solo passaporto del talento, tanto più sofferto ed inespresso.
Di Alvaro fu pubblicato quasi tutto e ancora altro bene fece ai suoi, di nuovo prossimi parenti. Di Alvaro fu pubblicato quasi tutto, tranne poche strofe che mi diede poco prima di partire per la sua strana e involontaria sorte. Su un foglio scritto a penna c'era scritto: "Perdonami dolce e sensibile creatura, gettarti dentro il mare un minuto prima di me, tu, ancora giovane, incompresa artista e già così delusa dai morsi infami di questo arido angolo di mondo, ed io incapace di salvarti, inutile anche in questo, e rubarti con le labbra l'ultimo respiro che mi chiedeva di riportarti in vita, e per questo amarti.

Unico regalo che in un solo istante mi ha illuminato sulla grandiosa bellezza di questa unica, irripetibile esistenza".
Come mi chiese Alvaro, misero innocente, andai a portare quel biglietto sulla tomba della giovane pittrice. Appena lo posai fu preda di un anomalo alito di vento e prese il volo. Da quel giorno io, Manolo, ignorante carceriere, mi sento meno impietoso e li penso insieme, finalmente anime felici, a dipingere cieli più sereni e narrare agli angeli epigrammi e dolci poesie.
 
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