- n. 6 - Giugno 2011
- Opinioni
L’individualismo e i nostri figli alcolizzati
Tra le tante notizie che della morte fanno spettacolo, talvolta ci si occupa di quel disagio giovanile che porta molti figli a rischiare la pelle tra le curve, ritornando a casa tardi e sbronzi, la notte del sabato, quando già è domenica da un pezzo. Del percorso di autodistruzione che porta alcuni giovani al tempio dello sballo si sa quasi tutto: eppure lo si tollera, a volte lo si favorisce, spesso lo si ignora.
I ragazzi fanno “ciao” ed escono la sera; molti fanno il pieno di alcolici nel solito bar, nel pub, nella vineria, prima ancora di decidere dove andare a completare l’opera per il resto delle ore buie e complici di quel pellegrinaggio che è più di una moda. I nostri figli benestanti hanno i mezzi per farsi male: soldi in tasca e scarsi limiti, nessuna religione, cattive abitudini e pochi esempi, macchine veloci, volubili ideali di fugaci miti e poi ogni miscuglio liquido e solido per annebbiare il cervello e per corrodere il fisico ancora giovane e acerbo, sebbene forte, sano e bello. Fragile se conficcato ai 100 all’ora dentro un muro o ribaltato in un fosso. I ragazzi bevono di tutto, maturi e minorenni, ragazze e sbarbatelli si aiutano in gruppo; sanno eludere ogni blando divieto adottando un banale trucco. I ragazzi fanno tardi, si stordiscono, bruciano le proprie idee con pasticche a buon mercato, si riempiono di cocktail, vomitano, rischiano la pelle, il coma etilico; e noi, genitori senza più nerbo, noi colpevoli e distratti, noi complici del misfatto, a volte preghiamo, altre volte protestiamo contro un sistema che abbiamo creato noi per soddisfare arcani vizi primitivi e lucrosi interessi. I ragazzi alcolizzati tornano all’alba e dormono santificando la domenica e la vita riciclata. Qualcuno usa male il volante; le probabilità di un ritorno indolore diminuiscono in base al tasso alcolico, alla consapevolezza del sé, a quel che resta della lucidità.
Tutto questo ha un’origine, un perché. Non è colpa della discoteca, non è colpa del bar, non è colpa della scuola che non insegna più come comportarsi. È colpa del nostro modello di sviluppo al quale abbiamo svenduto il sapere dei nostri avi, la magia della fantasia, piccole storie antiche, vecchie favole dalla morale profonda, parabole cristiane delle quali oggi qualcuno persino si vergogna. Noi cinquantenni abbiamo rifatto le regole del vivere e adesso, sperduti nel nostro stesso creato, le critichiamo confusi: siamo vittime e carnefici che non vogliono ammettere la propria frivolezza, il cieco egoismo che ci ha portati a questo momento storico che già è definito come “individualismo”. Noi adulti, presuntuosi con la verità in tasca, abbiamo ceduto al fascino del consumismo, della pubblicità, della velocità, dell’inquinamento, del successo individuale. Abbiamo dapprima divorato e poi prodotto un mondo mostruoso che adesso, incapaci di dominare, di riavvolgere, di ripulire, di rieducare, subiamo passivamente, criticando il nostro stesso frutto senza voler ammettere colpe. In questo meccanismo perverso, opera di tutti e di nessuno, i nostri figli annaspano senza meta aggrappandosi al bicchiere.
C’è da riflettere sul perché si ritrovano in gruppo: vestiti firmati, occhiali alla moda, orologi di plastica, motori potenti, sguardi arroganti. C’è da riflettere sul perché ci sfuggono e tra loro si mescolano, cercando in età implume verità alcoliche, eccitanti tagli alle facoltà di intendere, cognizione del rischio di morire giovani. C’è da riflettere e avere il coraggio di ammettere, per poi agire, dichiarando le nostre colpe e, dalla consapevolezza, ripartire. Tocca a noi, madri e padri di figli e sbagli, riconvertire timori e accecate convenienze smettendo di prodigare buoni consigli e di mostrare cattivi esempi. Siamo cresciuti con regole di origine antica, le abbiamo infrante e ci mancano già. Occorre prendere coscienza delle nostre responsabilità. Sappiamo che molti giovani si stordiscono con vino, birra, vodka e tequila. Sappiamo questo e altro, noi che diciamo sempre sì a tutto, noi padri distratti, brillanti e di ogni cosa esperti, rammentiamo qual è il senso della vita e riflettiamo sulla precaria fragilità del corpo. I ragazzi bevono di tutto: immagini veloci, banalità di morti precoci, giochi elettronici, promotion, novità. Le ragazze trangugiano il mito della fisicità: concorsi, sfilate, grandi fratelli, sesso in tv, normalità sboccate e fino a ieri del tutto proibite.
Questo è il nostro insegnamento: noi inventori, guardoni e partecipi. E in questo mondo senza più mutande, senza troppi sentimenti, in questa grande isola di belli, ignoranti, spogli, purché famosi, si aggirano i nostri figli, cercando il senso del proprio tempo nel nostro sporco esempio. Certo non è così per tutti, lo si sa: ma lavarsene le mani sussurrando “io no, io non ci sono!” senza far gruppo e solidarietà, non cambierà nulla. I campioni del sabato sera rischiano la vita mentre corrono nella notte di quello che abbiamo loro insegnato, zitti a tavola con la televisione accesa. Siamo tutti rampolli della redazione tv; mi chiedo quanti saprebbero pensare a dove andare, a cosa fare, a cosa comprare se oggi si spegnesse il video con tutti i suoi dibattiti e la pubblicità.
Un tempo i figli erano considerati un dono di Dio: educarli, accudirli e proteggerli era una responsabilità fatta di dottrina, di amore e di severità. Oggi sono in voga nuovi miti fatui: elettronica, velocità, silicone e diete, metalliche divinità. È tempo di un altro illuminismo che ci liberi da questa brillante e squallida minorità. Torniamo a ragionarne nelle case, nelle piazze, nelle scuole! Mentre siamo ancora in tempo, reclamiamo una informazione vera, che istruisca, che ritorni a mettere l’uomo al centro della vita, che infonda speranza e diffonda sapienza, perché già stanno crescendo altre generazioni di noi, antichi giovani dalla memoria corta, alcuni già nonni ormai, mentre nel distratto vuoto dell’individualismo il nostro avvenire si ubriaca e muore.
Carlo Mariano Sartoris