Rotastyle

La scomparsa di Sergio Pininfarina

Funerale per un grande designer e storia di un meccanico omicidio

Il bello: un concetto variabile nelle sue tante definizioni, matematicamente unico nel suo prodotto finale. Verso la fine degli anni ‘80 praticavo un mestiere che con il concetto di bello ha molto a che vedere e tante volte ho cercato la verità assoluta di quel vocabolo importante per il mio lavoro: designer. Ho trovato risposta nei rigidi stili della civiltà greca e in un pensiero di Platone: “il bello è la trasposizione del sublime in ciò che è visibile”. Ho trovato risposta in criteri dell’arte astratta: “il bello è nel perfetto caos d’interpretazioni emotive stabilite da un impulso naturale; a prima vista casuali, ma armoniche, quasi musicali”. Ho trovato risposta nei princìpi ispiratori del Movimento Moderno: “ciò che è bello risponde alla funzione di un insieme ottimale composto da forma, materiale e colore”. Poi, una sera, non potei evitare di seguire lo sfrecciare di un’auto e il suo suono inebriante; oggetto seducente e fugace come un pensiero sublime, un matematico, armonico insieme di forme, di materiali e di colori consacrati alla sua primaria funzione: essere una bellissima macchina veloce. Trovai così una meccanica risposta alla magia di quella professione.
La matita, madre dell’oggetto, era ispirata da una mano che per me, maschio interessato ai motori, era quasi celeste. Il padre della fuoriserie era quel Sergio Pininfarina che, morendo il 3 luglio di quest’anno, ha reso orfani alcuni dei più eleganti e veloci giocattoli di questo mondo a benzina, ma non solo. Pininfarina è stato un uomo raro e fortunato, nato 85 anni fa sotto una splendida stella, destinato a lasciare la propria firma sulla carrozzeria delle più seducenti autovetture del mondo. Uomo fortunato per aver saputo trasformare il sogno in un magico prodotto da sogno, padroneggiando i tanti equilibri che mutano un insieme di alluminio, di metalli, di gomma e di velocità in una scultura, in un’opera d’arte, statica e dinamica. Uomo fortunato per le tante altre illustri, signorili e lungimiranti opere di vita e di matita realizzate per sé, per la sua azienda e per l’immagine del made in Italy e di una genialità di vera eccellenza. Ancor di più mi rattrista oggi la dipartita d’un uomo di tanto spessore perché collima con un ulteriore lutto nel settore di un prodotto a scoppio, ora “ritardato”, di cui l’Italia andava fiera: l’industria dell’auto quotidiana. Un’automobile che, fino a pochi decenni fa, pareva cosa privata da gestire tra i confini della vecchia Europa. Gli stilisti italiani a farla da padroni, a dettare forme e proporzioni, e lui, Sergio Pininfarina, principe indiscusso delle sagome veloci, di prototipi e di rombanti oggetti quasi esoterici, ma anche ambasciatore di un tessuto produttivo nazionale invidiato nel mondo. Ferrari, Lancia, Alfa Romeo, Maserati e Fiat (prima realizzazione, la 124 spider, stupenda ancora adesso) hanno vestito a festa i loro motori sportivi affidandosi alla mano dell’ispirato designer torinese. Marchi italiani, orgoglio di un passato fertile, i più accessibili ai ceti popolari, ahimè gradualmente mal gestiti, trasformati in malati, oggi agonizzanti, orfani di una armonica matita, ma purtroppo non solo di quella. L’Italia dell’industria e del motore è cupa, offesa. Ripudia i nuovi programmi del più grande gruppo automobilistico, famiglia che le appartiene per eredità di impegni, per sudore, per sofferenza, per gloria e per storia. L’Alfa, ridotta ormai a pochi modelli quasi domestici, si spegne tra le lacrime di Dalla e Nuvolari. La Lancia chiama forte: Aurelia, Fulvia, Flavia, Flaminia! E poi, Delta integrale e Stratos che borbottano tra i raduni d’auto storiche, lì confinate al pari degli ultimi apache. Le catene di montaggio di Torino Mirafiori sono ferme là dove, neppure tanti anni prima, memorabili utilitarie Fiat anticipavano i tempi mandando a spasso tutta la nazione. Qualcuna piccola davvero, altre quasi importanti; e poi, quella A112 scattante e, ancor oggi, matematicamente bella. Ombre lunghe di un passato italiano fatto di genialità, di lavoro e di duri contrasti ideologici, ma vivo e produttivo, che non si può dilapidare in un inafferrabile progetto che si sottrae alla concorrenza, dove il profitto regna, predispone e comanda senza spingere lo sguardo oltre, verso scelte per un futuro migliore, e nemmeno voltandosi per attingere a una grande eredità. Eredità di un patrimonio motoristico e stilistico di durevole prestigio e di qualità. Eredità che lentamente muore, masticando lacrime e gemiti con accento americano. Perdere la memoria delle proprie radici vuol dire rinnegare anche il tempo che verrà; e chi sostiene che l’Italia non era patria per far motori, ma altro, non insista, non sa quel che dice. Noi di una certa età, noi che ancora non siamo del tutto stupidi, sentiamo sulla pelle che qualcosa di enorme e di sbagliato, di voluto, oppure semplicemente di cieco o di mal gestito, si sta consumando come un colossale omicidio meccanico, storico, umano e, in fondo, tanto nazionalista. È un olocausto che sa di pianificato. Un estremo rantolo di questa povera patria derubata di tutto e ormai difesa da nessuno. Nessuno che purtroppo esiste, farfuglia e reprime un intero Paese che ce la potrebbe fare. L’Italia non ce la farà, non in mano a restauratori senza orgoglio né talento, non ce la farà senza nuovi pionieri, senza artisti, senza maghi dell’industria, della politica, della matita e del bello, senza una strada spianata verso una nuova era. È tempo di un nuovo Rinascimento. Il momento chiama a gran voce altre intuizioni e certe idee non mancano. La strada del progredire reclama il rombo di nuove iniziative, di nuove forme e di nuove, argute sagome nel grafico del bello, della programmazione, del senso dell’oggetto e del futuro che verrà. Il Rinascimento che non ci sarà propone riconversione, il ritorno a un umanesimo culturale e produttivo, a un progresso sostenibile dalla grande madre terra e dall’umanità. Tutto questo sembra andare oltre le magie della matita di un grande progettista scomparso, ma non è così.
Sergio Pininfarina: non solo vivace industriale e ingegnere premiato a Detroit come miglior designer automobilistico mondiale, ma anche Parlamentare a Strasburgo, Presidente di Confindustria, Cavaliere del Lavoro, Ufficiale della Legion d’Onore e, infine, Senatore a vita. Sono uomini così che mancano adesso, qui, altrove, ovunque.
Pochi sanno che una automobile è mediamente composta da circa 30.000 pezzi. Disegnare una Ferrari è più complesso che non immaginare snelle regole utili ad un’inedita e sapiente operosità che sappia coniugare le necessità di un popolo, la sua storia e il suo futuro, rifacendosi ai principi del bello e applicandoli al tutto con arte, con conoscenza e con passione. Ecco perché, nella mia mente perversa, Sergio Pininfarina, anziché morire, avrebbe dovuto rinnovare il contratto e dedicarsi ora a ridisegnare forme, proporzioni e colori non soltanto di un’industria nazionale, ma forse del nostro modo di vivere e già che ci siamo, perché no?, del nostro modo di interagire con il mondo.
 
Carlo Mariano Sartoris


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