Rotastyle

Dal buio del Tunnel

Quel giorno ero turbata, stranamente inquieta. Non era la prima volta che trasportavo un campionario di tale valore, a quello ero abituata. Portare a spasso oggetti piccoli, ma assai preziosi, era il mio mestiere, eppure mi sentivo infastidita da un monito strisciante, un inafferrabile disagio che mi scivolava addosso e dentro come un serpente irriverente.
Acquitrinosi dubbi impantanati nelle infelici pieghe di una vita agiata, ma incolore, cattivi pensieri, nebulosi ghiribizzi d'amore, svigorite voglie di infantili tenerezze e disdicevoli aspirazioni di peccati inconfessati. Debolezze non concesse ad una donna in carriera. Quella donna poco più che quarantenne, elegante e ancora assai piacente alla quale stavo contando due piccole, nuove rughe ai lati della bocca. Quella bocca che stavo ripassando col rossetto, perlustrando il mio volto con pensierosa cura. Un viso intelligente, che mi guardava a sua volta, chiedendomi di non andare, non ancora, parlandomi da dentro il vetro dello specchio. Lo specchio impassibile, muto e imparziale della toilette di quella comunissima stazione di servizio autostradale. Fuori pioveva, ma il problema che mi si presentò non era di per sé seccante, non per questioni di pretta umidità.
Quando uscii, l'automobile non c'era più. Maledissi colui che me l'aveva rubata e feci centro. Di lì a poco, mentre indugiavo sul da farsi, dal tunnel poco distante uscì del fumo. C'era stato un brutto incidente, un tamponamento, un incendio. Un vero disastro, morti e dispersi, non se ne sapeva ancora niente. Ero salva per il tempo di un velo di rossetto perso dietro ad un morboso istante catturato da un ambiguo e fragile capriccio femminile.
Avevo con me la valigetta. Meno male!
Un istinto invadente mi fermò la mano, bloccando la mossa più logica, proprio mentre stavo per telefonare a casa per tranquillizzare quelle persone a cui, sapermi viva, avrebbe spostato di poco la sfera emotiva. Al posto del gesto naturale, un pensiero impertinente si fece largo nella testa. Non era la prima volta che si verificava una disgrazia di quel tipo. Avevo tempo per scrutare dentro a quell'eccentrica e maliziosa pulsione, che mi stava avviluppando i sensi con un insolito sentimento di leggerezza, di eccitata libertà.
Aspettare, stare ad osservare, controllare se la mia auto si era fusa dentro al rogo, e con lei il suo nuovo, disgraziato proprietario. Era un pensiero farsesco che mi saliva spontaneo da dentro, ma col passare delle ore divenne quasi un perfido, maligno ed intrigante desiderio. Tre giorni appresso ebbi conferma. L'auto era bruciata come un ceppo nel camino e con lei i miei miseri resti. Tranquillamente alloggiata in un albergo ben distante, seppi d'essere stata una vittima riconosciuta, per via di un dente.
La situazione era diventata complessa, ma era divertente ed eccitante. Niente mi avrebbe impedito di riemergere dal malinteso dopo un po', accampando qualsiasi scusa, ma l'idea di scomparire per qualche giorno ancora, il non esistere, il camuffarmi era la cosa più seducente che la vita mi avesse mai regalato dai tempi dei giochi maliziosi tra adolescenti.
Decisi che ne avrei approfittato.

Da dietro un cappellino con la velette, una parrucca mora e gli occhi di un altro colore, andai ad assistere, tenendomi in disparte, al mio elegante funerale. Presenziai al pianto artificiale di Serena, vent'anni, viziata, prepotente ed aggressiva. Tutto l'affetto che le avevo offerto per tentare di lenire la prematura perdita della madre naturale, me lo aveva sputato in faccia dal fumo azzurro del suo immancabile spinello. Era figlia del primo matrimonio di Maurizio, il mio bel marito cinquantenne, ricco, scherzoso, brillante, ma un po' freddino e, ultimamente, sempre più distante. Il bel Maurizio aveva occhi tristi e scuri, ed era a braccetto di Marina, la mia cugina prediletta, trentatré anni, davvero graziosa nell'abbinare il biondo platino dei lunghi capelli lisci con il vestito antracite ''Laura Biagiotti'', corto e attillato.
Mentre il prete benediceva una bara dove giacevano ignoti e miseri mozziconi inceneriti di un ladro sfortunato, gli amici parlottavano tra loro, qualcuno era dispiaciuto davvero.
Poi partecipai alla mia sepoltura, semplice e toccante, una emozione impressionante.
Tutti zitti mentre calava la bara, poi i fiori, strette di mano, tutti in fila camminando tra i silenzi dei cipressi, infine fuori. Macchine, gente, i soliti commenti, i soliti saluti tra amici e parenti, occhiate agli orologi, fretta. Serena schizzò via sulla BMW di Andrea, quel figlio scapestrato dell'avvocato Mazza; Maurizio fece posto alla cugina sull'Alfa GTV e prese il largo. Mentre mi accodavo alla rossa coupè con la macchina presa a nolo, gustavo tutti i sapori dell'anonimato e tutte le amare constatazioni di quanto la mia vita fosse di poco conto in quel mondo fasullo e benestante che avevo barattato dieci anni prima con la mia più incerta, ma assai più emozionante, carriera da artista. Giovani cantonate senza appello. Per farla breve, i due non persero neppure un pomeriggio per onorare la mia memoria, ma filarono dritti in villa dove non c'era nessuno.
Sarebbe stato davvero un colpo di teatro rivelarmi lì, in quel momento, facendo finta di niente, in fondo capitava spesso che mi recassi a Parigi e Amsterdam per lavoro e poi tornassi anche dopo sei o sette giorni.
Mi ero già intrufolata in casa quando due fenomeni di eguale intensità bloccarono l'impulso più immediato e naturale.
Il primo, prevedibile, era che i due si erano scorticati gli abiti di dosso, come lui non mi aveva fatto mai, e poi, esaltati come degli animali, in preda all'eccitazione lei disse ridendo - ma come hai fatto a farla fuori in un modo così astuto? - e lui, gaudente: - non so cosa è successo, ma il tizio che ho pagato ha fatto un bel lavoro, non solo, ma di lui non ho più saputo niente -, e lei, ansimante: - ti pagheranno i soldi dell'assicurazione? - e lui, bastardo, che mai mi aveva amato con tanta foga: - per far di te la mia regina, certamente, piccola pantera, ho già provveduto…-.

Lo spettacolo era triste e la storia andava oltre ogni immaginazione, chissà cosa era successo dentro al tunnel, chissà che aveva in serbo per me lo sfortunato sicario, ma se si trattava di prenderla in prestito, manomettere la mia macchina per poi simulare un incidente, ebbene, si era certo guadagnato l'onorario. Il secondo impulso, irresistibile, che mi rese arrendevole alla complessa decisione fu che, per un seducente gioco della sorte, potevo dissolvermi, iniziare un'altra e nuova vita, ritornare una donna libera. Libera di vivere, di essere me stessa, finalmente libera di lasciarmi vezzeggiare da Jacky, romantico pittore parigino incrociato durante un vernissage. Aveva perso la testa per i miei occhi, e non soltanto per quelli, con lui portavo avanti una travolgente relazione da un paio di mesi, alterata allorché avevo detto - no - quando mi aveva chiesto di vivere con lui e mollare tutto, serva del perbenismo borghese.
I due si stavano rotolando addosso con la foga di due gatti in calore, non mi avrebbero notata neppure fossi stata cosparsa di campanelli. Fantasma nella casa, freddamente ritirai i miei documenti con il nome da signorina, presi dalla cassaforte gioielli e contanti e poi, prima di svanire per sempre, versai perfida vendetta dentro al bourbon che quel verme di Maurizio avrebbe tracannato entro un'ora. Se fosse sopravvissuto a quell'intruglio di veleno per topi e medicinali non sarebbe mai più stato lo stesso, ma, soprattutto, nella storia tra i due amanti e l'assicurazione sarebbero sorti sospetti e altrettanti fraintendimenti. Jacky, dolce come il miele, mi aveva accolta nella sua mansarda felice come un bimbo quando scarta i regali di Natale.
Jacky era un vero artista della vita, un uomo che sapeva come parlare d'amore a una donna, con un bacio lungo e lavorato riusciva a far sognare tutti i colori che dipingeva col pennello, e non solo con quello. Tra le sue braccia mi sentivo felice ed appagata. Dopo tanto tempo provavo la gioia d'esser femmina, amata e innamorata. Maurizio era morto dopo due settimane di atroci sofferenze, Marina era indagata, ed io ero su di un treno, diretta in Spagna per una romantica vacanza, felicemente ab- bracciata all'uomo più tenero che avessi mai incontrato. Nella valigetta che avevo conservato vi erano preziosi che ci avrebbero permesso di vivere una vita da signori. Buffa la vita. Nel lungo tunnel che attraversava i Pirenei, il dondolio della cuccetta stuzzicava l'erotismo irriverente e inconfessato che ora volava libero di sprigionare ogni fantasia. Abbracciai il mio artista e impudica, lo baciai.
Mentre l'eccitazione rasentava l'orgasmo sentii le sue mani stringermi forte il collo, troppo forte, e poi sussurrarmi dal buio del tunnel: - dommage, mon amour, ma tuo marito mi ha pagato per farlo, je suis plus que un professioniste, je suis un artiste…
 
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