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La scomparsa di Franca Rame

Bella ciao!

Esiste un uomo speciale, un mattatore di suoni e di parole, geniale e sapiente giullare del palco, insuperabile maestro del teatro che ha giocato con tutti, persino con Dio: Dario Fo, icona dello spettacolo italiano. Un uomo di cotanto spessore non poteva non accompagnarsi ad una donna che non fosse altrettanto fantastica: così è stato, fino a quando il Regista di tutte le cose ha decretato. Franca Rame, sua compagna di una vita, soubrette, attrice teatrale e impegnata figura politica italiana, ha visto scendere il sipario sullo spettacolo del vivere il 29 maggio 2013, abbandonando la scena tra gli applausi di colleghi e di tanta altra gente, ma soprattutto con un grido di commiato quasi disperato, eppure perfetto: “ciao Franca”! E tanto è bastato per far commuovere una virtuale platea di persone, rapite da un momento toccante e vigoroso nella sua dignitosa cornice, il più intenso grido d’amore che il grande attore potesse dedicare alla sua compagna, estrema ovazione alla fine dell’ultimo atto di una vita, il funerale. Non poteva bastare. Il profondo declama di addio si è concluso con una perla di saggezza:... e se deve essere conoscenza, allora ben venga anche la morte”! Una frase che ha bucato lo schermo del telegiornale, che mi ha colpito al cuore e che già è uno spunto di riflessione per molta gente. In questi casi mi sento piccolo e quasi non oso scrivere.
Franca Rame è stata una donna che ha lottato per ideali di giustizia negata e che, per questo, ha subito la peggior forma di violenza, ipotetica vendetta politica che da umiliante forma di ritorsione si è trasformata col tempo in una vittoria umana. Quella brutta storia indurrebbe riserbo, ma quando la vidi da lei stessa interpretata in un varietà che si fece serio mi colpì per il coraggio e la sagacia, vicenda mutata in discorso universale: nell’intimo del mio essere maschile, di fronte alla parte più bestiale dell’uomo, la mia ammirazione e la stima nei confronti della donna ne uscirono feriti. Fu una ritorsione bieca e d’antica memoria, rimasta impunita, stabilita tra le porcherie occulte dello Stato, prezzo finale pagato a un impegno artistico e sociale progressista abbracciato con il suo compagno: mitici ideali del ‘68, oggi quasi sbiaditi, quando sarebbe tempo di un altro movimento politico e culturale che sappia mettere di nuovo al centro di ogni dibattito la libertà di esistere e la voce della gente.
Femminista dal principio degli anni ‘70, biondo alfiere di sinistra con coraggio, con intelligenza e con dignità, Franca Rame ha sempre proseguito l’impegno sociale e politico fino ad essere eletta senatrice nel 2006, abbandonando poi il ruolo due anni dopo in disaccordo con l’onestà morale e la realtà di quell’ambiguo palco. Il meglio di sé si è suddiviso tra l’arte e la battaglia. Nel frattempo il suo colore rosso non si è mai sbiadito e Carlo Marx ha trovato in lei una splendida ambasciatrice, una donna bella quanto sagace, una magnifica combattente.
L’affabulatore, il grande attore che la prese in moglie nel ’54, ne era orgoglioso e consapevole e non ne faceva mistero. Non poteva incappare in miglior sorte, poiché è grande fortuna apparire al mondo come una splendida coppia e in coppia condividere il tempo, senza mai apparire come esseri banali e raccogliendo sempre stima e consensi. Si potrebbero ripercorrere onori, glorie e sventura di una donna che già manca a molta gente, cose che però si possono leggere anche su altre autorevoli fonti. Io invece mi vorrei soffermare su quella che appare ai miei occhi una bellissima e fortunata storia d’amore, una di quelle che non dovrebbero finire lasciando l’uno a contemplare il vuoto dell’altra. Non è facile rinunciare all’altra metà della mela, ancor più quando la coppia è talmente ricca e sontuosa d’arte e di cultura da apparire insostituibile una volta dimezzata. Speriamo ardentemente che la scomparsa di Franca non affievolisca prima del tempo la forza prorompente del suo sposo, giovanotto di una certa età che l’Italia non si può permettere di vedere svigorire. Non credo lo farà.
Al grande Dario, dunque, chiedo benevolenza per aver toccato certi argomenti e porto le più profonde, sincere condoglianze da piccolo uomo di spettacolo che lo ammira da sempre; altrettanta partecipazione manifesto al figlio Jacopo, del quale ricordo uno spettacolo d’una quindicina d’anni fa: una serata all’aperto non lontano da Torino. Penso spesso e per molti motivi a quell’occasione, a quel monologo e a quelle intriganti gestualità corporee. Era un momento particolare della mia vita. Fu un bello spettacolo e con me vi era un gruppo di amici: proseguimmo la serata andando a bere qualcosa, entusiasti mezzi intellettuali, soddisfatti parolai, critici e rapiti. Momenti andati, ma non dimenticati.
 
Carlo Mariano Sartoris


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