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Vale più la vita o la dignità della vita?

La Corte di Cassazione potrebbe rigettare per la seconda volta la richiesta del padre di Eluana Englaro di interrompere la nutrizione della figlia, in coma ormai da molti anni, ma che sopravvive grazie ad un sondino tramite il quale viene alimentata. Nel commentare questa probabile decisione un magistrato ha ribadito come nel nostro ordinamento giuridico si tende a dare prevalenza al valore della vita rispetto a quello della dignità della vita. Sembrerebbe significare, nel caso specifico di Eluana Englaro, che le nostre leggi tendono ad imporre agli individui di vivere a prescindere dalla qualità della loro vita. In altri termini, pur riconoscendo che così com'è la vita di questa donna non è degna di essere vissuta, la legge italiana le dice che "deve" vivere lo stesso. Come se la vita valesse sempre e comunque, che sia o meno minimamente degna di essere vissuta per chi la vive. Il valore della vita in sé non dovrebbe mai essere separato da quello che essa ha per chi la vive. Per evitare due rischi opposti, ma altrettanto gravi: che il valore della vita in sé dipenda dalla dignità che gli attribuisce chi la vive, mettendola così in balia della volontà individuale, per definizione arbitraria e fallibile; che la dignità di chi vive dipenda dal valore della vita in sé, mettendola così in balia delle "condizioni oggettive" che la caratterizzano, cioè espropriandola a chi la vive. Va da sé, quindi, che la situazione più auspicabile è quella in cui il valore della vita in sé coincide con la volontà di chi la vive nel considerarla degna di essere vissuta.
Il problema sorge quando questa coincidenza viene messa in crisi. Come accade tutte le volte che la vita non è degna di esser vissuta per chi la vive, ma può ancora avere un valore in sé (è il caso di Eluana Englaro); o quando la vita è degna di essere vissuta per chi la vive, ma non ha un valore in sé (un qualunque "depravato" può considerare la propria vita degna di essere vissuta, ma essa può non più avere alcun valore in sé).
Il conflitto tra valori che ne deriva può imporre un intervento d'autorità che, in una società civile, deve essere legittimato da una o più leggi. Nel caso Englaro il conflitto è chiaro: il padre vorrebbe far prevalere la volontà della figlia (la quale palesemente non avrebbe potuto considerare la sua vita vegetativa degna di essere vissuta); i giudici vorrebbero far prevalere il valore prevalente in tutte le espressioni della nostra società (secondo il quale il dovere di vivere prevale sempre sulla volontà di morire). Chi ha ragione?
Dal punto di vista soggettivo ha ragione il padre di Eluana, da quello "culturale" i giudici. Hanno entrambi ragione e quindi il loro conflitto non dovrebbe essere risolto facendo prevalere una delle due parti. Infatti, se si impongono i giudici si commette un'ingiustizia; se si impone la volontà individuale di morire si mette in pericolo la società, visto che nessuna "associazione" tra gli uomini potrebbe reggere se si riconoscesse come legittima la volontà soggettiva di uccidersi tutte le volte che la vita perde dignità. Per questo motivo il suicidio viene combattuto in tutte le società di tutti i tempi, aiutando coloro che hanno una vita indegna di essere vissuta a recuperare una dignità. Quando, poi, il conflitto viene risolto facendo prevalere una delle due parti, non si conclude alcunché, perché subito la parte perdente si prepara alla prossima inevitabile battaglia e la guerra diventa perpetua. Ci vorrebbe una terza alternativa, in grado di superare l'irrisolvibile contrapposizione tra il valore della vita in sé e il valore della dignità della vita per chi la vive. Ma esiste una tale alternativa?
Possiamo cominciare ad abbozzare una risposta se consideriamo che le due ipotesi si riferiscono al valore di due dimensioni essenziali dell'uomo, ma ne trascurano una terza altrettanto essenziale. La vita ha valore in sé perché possiede un certo grado di autonomia rispetto alla volontà di chi la vive e la dignità della vita ha il potere di influire sulla vita perché la volontà soggettiva possiede un certo grado di libertà nel governarla; ma anche, la vita non ha valore solo perché si autodetermina, né solo perché è governata da una libera volontà soggettiva: la vita ha valore anche per gli altri.
Ora, sia la vita che si autodetermina sia quella governata dalla volontà soggettiva sono "vita senza l'altro", rispettivamente "vita individuale" (in sé) e "vita personale" (per sé). Cosa accadrebbe se il valore della vita in sé e quello della vita per sé si confrontassero col valore della vita per altri? Per gli altri, la vita di Eluana vale in sé o vale ancora anche se per lei non è più dignitosa? I primi dovrebbero sentire la responsabilità di occuparsi della vita di Eluana, i secondi di aiutarla a morire.
Chi si occupa della vita di Eluana (gli operatori sanitari che la assistono e i suoi caregivers in genere) lo fa perché si è assunto la responsabilità che gli deriva dall'aver detto sì alla sua esistenza non dignitosa (cioè dal pensare che la vita di Eluana vale in sé ed è dignitosa nonostante lei non la consideri tale)? Se lo fa per questa responsabilità, la vita di Eluana è ancora priva di valore per chi la considera poco dignitosa?
E il padre di Eluana dice no al valore della vita di lei perché non assume la responsabilità di aiutarla a morire? Forse vorrebbe essere autorizzato a farlo per esserne deresponsabilizzato? Ma quale legge avrebbe il coraggio di condannarlo?
Il conflitto si ripropone ad un livello diverso, quello delle responsabilità.
Gli "altri" possono sentire nei confronti di Eluana due tipi di responsabilità, quella di accudirla e quella di aiutarla a morire. E i portatori di questi due tipi di responsabilità devono smettere di combattersi e parlarsi. Continuare a curare amorevolmente Eluana cambia la sua vita rendendola più degna di esser vissuta, oppure essa resta ancora priva di valore e non c'è altra alternativa che aiutare la morte? In sostanza, introdurre la dimensione di valore che riguarda gli altri apre la possibilità di chiedersi se la vita di Eluana può ancora valere per gli altri a prescindere dallo stabilire che valga in sé o che sia indegna di essere vissuta per chi la vive.
 
Francesco Campione

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