- n. 6 - Giugno 2012
- Appunti di viaggio
Brasile
Dal Tropico del Capricorno all'Equatore/1
Viviamo in un’epoca di acronimi. Tutto è buono per agglomerare iniziali e per farne delle sigle più o meno comprensibili dai comuni mortali. Ve ne sono alcune che si sono imposte negli ultimi anni di crisi economica mondiale. Crisi che non era entrata nelle previsioni di fior fiore di economisti e di esperti che hanno dimostrato, alla prova dei fatti, di capirne poco più del cittadino qualsiasi il quale, tuttavia, non ostenta la spocchiosa sufficienza dei grandi iniziati ai misteri della finanza mondiale o di quelli che, dopo aver letto i pareri di tanto illuminati maestri, si mettono a loro volta a pontificare su questo o su quest’altro propagando illusione e disinformazione e facendo sì che chi li ascolta non possa impedirsi di sorridere, almeno con il cervello, all’udire le scellerate scemenze che escono da quelle bocche, che si vorrebbero auree ed autorevoli.
Tra quelli più correnti oggi ve ne sono due che vanno per la maggiore: PIGS (diventato nel frattempo PIIGS) e BRIC (trasformatosi successivamente in BRICS). Il primo si riferisce agli stati europei inguaiati. Esso, guarda caso, significava, prima dell’aggiunta della seconda “I“, “maiali” (in inglese “pig”) e corrispondeva a Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. La seconda “I”, aggiunta posteriormente, sanziona le prestazioni del “bel paese là dove ‘l sì suona” (Dante, Divina Commedia, Inferno XXXIII, 80 – “Ahi Pisa vituperio delle genti...”). Le cause della crisi che ha colpito in particolare gli stati sopra menzionati risiede, semplificando, nell’indebitamento eccessivo e nell’indisciplina, con conseguente perdita di controllo, nella gestione della spesa pubblica. E ciò indipendentemente dal colore di chi ci governa visto che non è Berlusconi che ha voluto quarant’anni fa le regioni (aggiuntesi a comuni e provincie, ancora esistenti), vero baratro finanziario, o che ha, da un giorno all’altro, deciso di sperperare i quattrini del contribuente in iniziative eminentemente clientelistiche. Chi ha una certa età ricorda, ad esempio, di quanto sia costata al Paese la famosa e famigerata Cassa per il Mezzogiorno con i risultati sotto gli occhi di tutti. All’epoca chi menava (per il naso, aggiungeremmo) l’Italia era di tutt’altra parrocchia del tycoon lombardo. Oggi, tutti possiamo quotidianamente apprezzare, si fa per dire, i risultati pratici di tanta disinteressata dedizione sulla nostra vita di ogni giorno. Non spariamo sui cadaveri!
Tutt’altra musica per l’altra sigla. BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) all’origine, ha preso recentemente una “S” finale che sta per Sud Africa. Tutti sanno, per averlo vissuto personalmente o per sentito dire, che questi Paesi sono destinati a giocare un ruolo sempre più importante come players, attori, nel concerto internazionale. Con tutte le logiche conseguenze sul livello di vita delle persone che in essi vivono ed operano. Ora non è che queste contrade siano blindate contro le conseguenze della crisi mondiale. Tuttavia essi hanno una fondata opportunità di cavarsela meglio degli altri non avendo al piede la palla di ferro dei parametri negativi sopra evocati. In Brasile, ad esempio, l’economia tira, il consumo interno cresce assieme al volume del credito man mano che aumenta nella popolazione, grazie alle politiche messe in atto dai governanti, il numero delle persone che accedono ad un relativo benessere. Si potrà dire tutto il male che si vuole dell’ex presidente Lula (soprattutto in noi italiani la scandalosa decisione su un criminale come Battisti ha lasciato tracce indelebili) o della sua delfina Dilma Roussef, l’attuale presidentessa di origine bulgara. Nonostante la corruzione effettivamente esistente (in Brasile c’è chi assicura, gli lasciamo volentieri la responsabilità dell’affermazione, che Lula abbia “favorito” persone della propria famiglia arricchitesi molto, troppo, rapidamente dopo il suo accesso al potere...), rimane il fatto che ci son sempre meno poveri anche se accade ancora oggi di vedere gente, spesso giovani, che dorme per strada, mendicanti che assediano i passanti e banditi che rapinano i viaggiatori. Senza parlare delle frodi alla carta di credito di cui siamo stati vittime proprio in questo viaggio e che ci hanno permesso di vedere saccheggiato il nostro conto in date nelle quali eravamo già tornati a casa. Per fortuna che esiste una buona assicurazione. Un consiglio da amico: non usate il denaro plastico e sostituitelo con il contante. Se proprio non fosse possibile, impiegatelo in luoghi sicuri e soprattutto non tentate mai di ritirare del cash dalle cabine sui marciapiedi.
È, sul piano socio-economico, ciò che accade in India, Paese che regolarmente frequentiamo, quasi esclusivamente a titolo personale, da quarant’anni. La prima volta che giungemmo a Nuova Delhi, in pieno monsone per di più, la nostra prima reazione uscendo dall’aeroporto fu quella di fare dietro-front e di andare direttamente ad acquistare un biglietto di ritorno per l’Europa.
Tanto rimanemmo scossi dalla visione che si presentò ai nostri occhi: mendicanti, lebbrosi, gente che nella brodaglia monsonica strisciava sui marciapiedi alla ricerca di qualsiasi rifiuto da ingurgitare per sfamarsi, vacche sacre solo pelle ed ossa incapaci, probabilmente per la debolezza, di muoversi ed accasciate nei crocevia dove vigili inzuppati d’acqua, dall’aspetto altrettanto famelico, si sbracciavano tentando di far passare i “taxi-Vespa”, guidati essenzialmente da tenebrosi e barbuti
sikh senza disturbare il venerato ruminante. E tutto il resto. Chiasso, odoracci... Decidemmo di rimanerci e fummo rapidamente sedotti, conquistati da quel paese, la cui cucina sublime ha contribuito in modo non trascurabile al potere di attrazione di quelle contrade (sarebbe ora di finirla con la credenza che la cucina indiana sia solo il pessimo curry che ci viene servito in certi ristoranti etnici). Da allora ci andiamo regolarmente riscontrando, anche nel brevissimo termine, miglioramenti macroscopici del livello di vita generale. E questa sensazione è rimasta tale un viaggio dopo l’altro. Ancora pochi mesi fa ci siamo recati per un matrimonio di amici a Dehradun ed a Chandigarh (città nuova concepita dal grande architetto svizzero Le Corbusier che pur non facendo parte dei circuiti turistici classici consiglieremmo fortemente di visitare) per rimanere stupiti, sempre meno peraltro, dal livello di vita raggiunto da ampie fasce di popolazione. Non è che i poveri siano scomparsi. Ci vorranno generazioni. Però siamo sulla buona strada. Basti pensare alla capitale New Delhi che è, a parte il clima, una delle città al mondo che preferiamo e dove abbiamo ormai tutti i punti di riferimento (ristoranti, siti archeologici, teatri e gallerie, zone suggestive,…) che ci permettono di sentirci come a casa. Tutta questa digressione per dire che ciò che caratterizza questi paesi in via di rapidissimo sviluppo è la generalizzazione progressiva di un certo benessere con la nascita di un ceto medio di una certa consistenza e la formazione, nel contempo, di una classe dirigente di eccellenza (nella scienza, nell’amministrazione,…) frutto di una politica scolastica non lassista, ma fondata sull’acquisizione di competenze reali. Noi, in Europa, abbiamo vissuto lo stesso periodo nei primi decenni del dopoguerra. Poi, man mano che gli “altri” uscivano dalle tenebre di millenni, ci siamo impelagati in situazioni insostenibili che hanno condotto l’occidente (Europa e Nord America) ad una posizione che rischia, già nel breve termine, di diventare subordinata rispetto al potere delle potenze emergenti. Non solo a causa delle capacità intrinseche (si pensi al genio indiano per la fisica e l’informatica) di quelle genti, valorizzate a livello planetario da sistemi educativi fortemente selettivi, ma anche per il loro numero di abitanti. Le cose non funzionano, in effetti, come da noi dove tutti ci si compiace di appioppare un “Dottor” sul biglietto da visita, nell’annuario telefonico e financo negli annunci mortuari. Anche se dietro quel titolo (che i barbieri sono usi a distribuire
larga manu così come gli apriporta dei caffè viennesi di un secolo fa aggiungevano volentieri, se diamo fede al grande scrittore Stefan Zweig, un
“von” altisonante al cognome del cliente che si presentava all’ingresso) si nasconde spesso una mancanza di impiego, corollario inevitabile di una formazione precaria già a cominciare dall’uso dello strumento primo di comunicazione: la lingua materna strapazzata e violentata addirittura, se ci atteniamo ai resoconti dei commissari di esame, da candidati al concorso d’ingresso in Magistratura.
Il Viaggiatore