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Il trattamento fiscale delle perdite sui crediti

Giusto il disposto dell’articolo 106, comma 2, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 – TUIR, le perdite sui crediti che derivano dalle cessioni di beni e dalle prestazioni di servizi di cui all’articolo 85, comma 1, dello stesso decreto (limitatamente all’importo non coperto da garanzia assicurativa), determinate con riferimento al valore nominale o di acquisizione dei crediti stessi, sono deducibili a norma del precedente articolo 101, limitatamente alla parte che eccede l’ammontare del relativo fondo svalutazione (riconosciuto fiscalmente).
Il comma 5 dell’articolo 101 dispone che le perdite su crediti sono deducibili unicamente qualora risultino da elementi certi e precisi e, in ogni caso, qualora il debitore sia assoggettato a procedure concorsuali.
Per dedurre una perdita su crediti dal reddito imponibile occorre, dunque, che la stessa abbia i requisiti della “certezza”, quanto alla sua esistenza, e della “oggettiva determinabilità”, quanto al suo ammontare, in ottemperanza al principio della competenza economica di cui all’articolo 109, comma 1, del TUIR. I predetti requisiti devono trovare oggettivo riscontro negli atti intervenuti tra le parti e nella procedura attivata per il recupero dei crediti. Il creditore dovrà, pertanto, essere in grado di fornire le prove idonee a dimostrare che siano state esperite inutilmente tutte le procedure (anche, se del caso, legali) di recupero delle somme spettanti.
Si rileva che il Ministero delle Finanze, con la risoluzione 9 aprile 1980, n. 9/557 e la circolare 6 settembre 1980, n. 9/517, ha confermato la deducibilità delle perdite su crediti (come mancato conseguimento di ricavi e proventi imputati a conto economico in precedenti esercizi) nei casi in cui le stesse presentino il carattere della inevitabilità e la rinuncia ai crediti da parte del creditore sia conseguenza di una sua valutazione di convenienza. Scopo del creditore-imprenditore è, infatti, quello di pervenire al migliore risultato economico possibile per la propria impresa e “l’inerenza - e quindi l’inevitabilità di un costo od onere - va riconosciuta per il solo fatto che tale costo od onere si pone in una scelta di convenienza…”.
Nel caso in cui il creditore-imprenditore valuti eccessivamente oneroso attivare una procedura esecutiva per il recupero di un credito, rispetto all’entità dello stesso (da intendersi nel senso che le spese procedurali superano l’ammontare recuperabile del credito stesso e non si palesano recuperabili), sarà, pertanto, legittimato a portare in deduzione dal reddito la conseguente perdita. L’Amministrazione Finanziaria ha, tuttavia, precisato che “l’accertamento di un siffatto carattere va condotto con riferimento alle specifiche condizioni in cui l’operazione si concretizza allo scopo di verificare che la stessa realizzi effettivamente una scelta di convenienza per l’impresa”, lasciando, così, invero, un margine valutativo ai competenti organi di controllo.
Risulta, dunque, in via generale, fondamentale il poter fornire la prova dell’esistenza di un evento oggettivo che dimostri l’insolvibilità del debitore, ovvero la certezza della perdita. Gli elementi certi e precisi che legittimano la deduzione fiscale delle perdite su crediti, tuttavia, non devono necessariamente derivare da elementi esterni alla volontà del creditore. Può essere, infatti, quest’ultimo ad attivarsi per realizzare i presupposti che dimostrino con certezza e precisione la perdita, ad esempio, tramite gli istituti della remissione di debito e della cessione del credito (nelle due forme pro-soluto e pro-solvendo).
L’istituto della remissione del debito è disciplinata dall’articolo 1236 c.c. che dispone che “la dichiarazione del creditore di rimettere il debito estingue l’obbligazione quando è comunicata al debitore salvo che questi dichiari in un congruo termine di non volerne approfittare”. Come espresso dalla Corte di Cassazione nella sentenza 5 agosto 1983, n. 5260, trattasi di un “negozio unilaterale recettizio neutro quoad causam” (con conseguente irrilevanza di vantaggi per il creditore), ossia di un negozio giuridico che acquista efficacia al momento della (sola) comunicazione al debitore, la quale non deve, peraltro, assumere particolari forme, nemmeno per la prova. Con la notifica della rinuncia al debitore si estingue l’obbligazione di questi o, meglio, si estingue quando, avendo fissato un congruo termine per l’opposizione del debitore, questi non manifesti alcuna eccezione. Nonostante la non necessità di un atto formale (un atto scritto) è evidente che, ai fini della deducibilità fiscale della conseguente perdita, esso diventa un requisito indispensabile per assegnare certezza e precisione a quest’ultima.
A far perdere il carattere di mera liberalità alla remissione di un debito è la considerazione (da valutare, comunque, caso per caso) che nella rinuncia volontaria si manifesta il requisito della “inerenza” nella misura in cui si possa riconoscere, in tale procedura, una scelta di convenienza economica dell’imprenditore, finalizzata al conseguimento di un migliore risultato economico. Resta ferma, comunque, la necessità del riscontro della sproporzione fra l’ammontare del credito da incassare e il costo della (pur sempre aleatoria) procedura di coattiva riscossione, tale da far obbiettivamente ritenere antieconomico procedere in un tentativo di recupero per vie legali.
Per quanto concerne i crediti di modesto importo, si rileva che il Ministero delle Finanze, con la circolare 6 agosto 1976, n. 9/124, ha ritenuto legittima la deduzione delle relative perdite a prescindere dalla sussistenza di rigorose prove formali, “nella considerazione che la lieve entità dei crediti può consigliare le aziende a non intraprendere azioni di recupero che comporterebbero il sostenimento di ulteriori oneri”. Il Ministero ha, tuttavia, precisato, nella testé citata declaratoria, che la modestia dei crediti in questione deve essere valutata in relazione all’entità del portafoglio clienti e, quindi, che l’esiguità dell’importo deve essere confrontata con l’ammontare totale dei crediti nel portafoglio e non con i singoli importi degli stessi.
Venendo a trattare della cessione dei crediti, si rileva che la relativa disciplina civilistica è contenuta negli articoli dal 1260 al 1267 c.c., nonché nella Legge 21 febbraio 1991, n. 51, che individua, tra l’altro, le caratteristiche che deve possedere obbligatoriamente il cessionario del credito nelle ipotesi ivi previste. Il trasferimento del credito avviene tra le parti (cedente e cessionario) con il perfezionamento del contratto, che si realizza per effetto del consenso tra le stesse; l’efficacia nei confronti del debitore ceduto decorre, per contro, dal momento in cui questi ha avuto conoscenza del predetto trasferimento. L’articolo 1260 c.c. dispone che il creditore può trasferire (a titolo oneroso ovvero a titolo gratuito) il proprio credito, anche senza il consenso del debitore, purché lo stesso non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge. La cessione può avvenire pro-soluto o pro-solvendo, a seconda che il cedente sia tenuto a garantire al cessionario solamente l’esistenza del credito (e cioè del nomen verum), ovvero anche la solvibilità del debitore ceduto (e cioè il nomen bonum). Con la prima tipologia di cessione il cedente il credito risulta “liberato” al momento del trasferimento (come sopra individuato), con la conseguenza che il cessionario assume, con l’acquisto del credito, il rischio dell’insolvenza del debitore ceduto.
In base a quanto sopra esposto, la deducibilità della perdita su crediti, ai fini fiscali, è subordinata al verificarsi delle condizioni previste dagli articoli 101, comma 5, e 109, comma 1, del TUIR, dovendo, infatti, la perdita possedere i requisiti della certezza, della determinabilità e, ovviamente, dell’inerenza all’attività d’impresa. Per quanto attiene ai primi due requisiti (dando per assodata l’assoluta necessità dell’inerenza di una spesa all’attività d’impresa, onde procedere alla sua deduzione dal reddito), questi sono certamente realizzati nel caso di una cessione del credito pro-soluto. Il cedente sarà, quindi, legittimato a portare in diminuzione dal reddito la perdita “realizzata”, a condizione, ovviamente, che l’atto di cessione sia valido ed efficace. In una cessione pro-solvendo, per contro, l’ammontare della perdita non è né certo né definitivo, risultando il cedente “liberato” unicamente nel caso in cui il cessionario riscuota effettivamente il credito dal debitore ceduto. Il credito, sostanzialmente, non può dirsi ceduto in modo definitivo (ossia, uscito definitivamente dalla sfera giuridico-patrimoniale del cedente), in quanto il rischio di insolvenza del debitore ceduto ricade ancora sul cedente stesso e il cessionario mantiene il diritto all’azione di regresso nei suoi confronti. Si osserva che, ai fini della deducibilità delle perdite su crediti, lo stesso valore delle cessioni assumono le transazioni commerciali per effetto delle quali si realizzi una riduzione (certa e precisa) dei crediti spettanti. L’eventuale perdita subita a fronte della cessione o della transazione dovrà essere conteggiata, ai fini fiscali, sul valore nominale del credito.
Si rileva, in ultimo, che nell’articolo 101, comma 5, del TUIR è indicata una fattispecie per la quale è superfluo l’esame dei requisiti di certezza e precisione della perdita su crediti (ai fini della sua deducibilità), rappresentata dall’assoggettamento del debitore a procedure concorsuali. Le procedure concorsuali che permettono l’immediata deduzione sono il fallimento, il concordato preventivo, la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
La ratio della norma tributaria deve essere ricercata nella volontà del legislatore di considerare certa e precisa (presunzione assoluta) la perdita su crediti vantati verso soggetti ammessi a procedure concorsuali, salvo recuperare a tassazione la sopravvenienza attiva in caso di realizzo successivo degli stessi. Eventuali successivi recuperi di crediti già dichiarati irrealizzabili costituiranno, dunque, “sopravvenienze attive” che concorreranno alla formazione del reddito d’impresa nell’esercizio in cui insorgeranno. Il comma 5 del citato articolo 101 del TUIR prevede che, “ai fini della deducibilità delle perdite su crediti, il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa o del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo o del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi”.
Si segnala, al riguardo, peraltro, come la Corte di Cassazione, con la sentenza 28 aprile 2005, n. 16330, abbia sostenuto che, poiché in tema di reddito d’impresa non è consentita la detrazione di costi in esercizi diversi da quello di competenza, non potendo il contribuente essere lasciato arbitro della scelta del periodo in cui registrare le passività (con innegabili riflessi sulla determinazione del reddito imponibile), le perdite su crediti irrecuperabili debbono essere computate nell’anno in cui tale irrecuperabilità si è resa palese e non è consentito imputarle all’anno successivo. In particolare la sentenza precisa che “l’anno di competenza per operare la deduzione deve coincidere con quello in cui si acquista certezza che il credito non può essere più soddisfatto, perché in quel momento stesso si materializzano gli elementi “certi e precisi” della sua irrecuperabilità”. Tale sentenza riguarda una controversia relativa a perdite su crediti verso soggetti non interessati da procedure concorsuali e conferma che le perdite su crediti devono essere dedotte obbligatoriamente nell’esercizio in cui divengono certe, senza che il contribuente abbia la facoltà di scegliere a sua discrezione l’esercizio in cui dedurle. Ma, come precisato dalla Norma di comportamento n. 172 del 2 dicembre 2008, la sentenza non afferma che l’intero ammontare del credito debba essere stralciato in un solo esercizio, a pena di indeducibilità del residuo ammontare negli esercizi successivi, né potrebbe essere diversamente, dato che, in molti casi, costituirebbe violazione delle norme di redazione del bilancio.
Si rileva, inoltre, come l’Amministrazione Finanziaria abbia precisato, nella circolare 13 maggio 2003, n. 7313, che "in tema di imposte sui redditi e con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, il mancato pagamento del corrispettivo per la fornitura di merce, per la quale sia stata emessa fattura, non legittima la relativa contabilizzazione in diminuzione dei ricavi dell’anno successivo (con emissione di una nota di variazione ex articolo 26 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), dovendo il contribuente provvedere alla relativa annotazione tra i crediti inesigibili, ai sensi degli articoli 66, comma 3 [ora articolo 101, comma 4], e 71 [ora articolo 106] del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, atteso che l’operazione deve ritenersi effettuata, ex articolo 6 del citato D.P.R. n. 633 del 1972, alla data di consegna della merce e, ove sia emessa fattura, alla data di tale emissione, con la conseguenza che la contabilizzazione non può non essere operata nell’esercizio stesso in cui tali adempimenti vengono effettuati". Se, pertanto, a seguito di un accordo transattivo, si determina una perdita su crediti su ricavi contabilizzati in precedenti esercizi, sarà dal momento della sottoscrizione del predetto accordo che si verrà a determinare per l’impresa fornitrice l’inesigibilità definitiva del credito iscritto tra le attività patrimoniali e l’insorgenza degli elementi certi e precisi richiesti dalle norme fiscali per l’imputazione della stessa (previo utilizzo del fondo svalutazione crediti eventualmente esistente). Infatti, è in detto momento che le perdite risultano documentate in modo certo e preciso, come prescritto dall’articolo 101, comma 5, del TUIR.
Per quanto riguarda il caso particolare di debitore assoggettato a procedure concorsuali, la Corte di Cassazione, nella sentenza 12831 del 10 aprile 2002, ritiene che il credito possa essere svalutato anche in esercizi successivi a quello di apertura delle procedure stesse (e, dunque, non necessariamente in questo). E anche la Norma di comportamento n.172 del 2 dicembre 2008, precisa che l’apertura della procedura concorsuale rimane un momento in cui si presume la sussistenza di una perdita, ma la sua quantificazione e rilevanza va determinata – nel rispetto dei principi generali di cui all’articolo 2423, secondo comma e 2426, primo comma, numero 8) del codice civile e del principio dei prudenza di cui all’articolo2423 bis, comma 1, numero 4 del codice civile – da parte dell’imprenditore. Di conseguenza, per determinare il periodo in cui dedurre la perdita su crediti, occorre fare riferimento all’esercizio in cui è avvenuta l’imputazione della stessa a bilancio, che può essere l’esercizio di emanazione dei suddetti provvedimenti, ovvero anche un esercizio successivo. Si è, dunque, dell’avviso, che la svalutazione del credito possa eseguirsi in qualunque momento a partire da quello in cui si manifesta l’evento che la giustifica, a condizione che tale evento perduri anche successivamente, dovendosi pur sempre avere a riguardo al valore di presumibile realizzo del credito stesso.
Da un punto di vista civilistico, infatti, la perdita si realizza nel momento in cui si viene a conoscenza che un determinato credito non è più incassabile. Il codice civile non affronta, invero, in modo esplicito, l’argomento, in quanto la determinazione del valore delle perdite effettive su crediti viene considerato una semplice applicazione del postulato di “veridicità” del bilancio imposto dall’articolo 2423 c.c.; il codice, infatti, non specifica il momento in cui un credito debba essere eliminato, in modo definitivo, dalla contabilità, in quanto si reputa che ciò debba avvenire, secondo "ragionevolezza", nel momento in cui si può affermare con "certezza" che l’ammontare di tale credito non potrà più essere riscosso. La "vaghezza" del codice in merito a questa problematica è comprova del fatto che, da un punto di vista economico, indicare il momento preciso e vincolante in cui si possa considerare inesibigile un credito verso un cliente è, in sostanza, impossibile.
 
Relativamente ai casi in cui il debitore sia un soggetto estero, l’Amministrazione Finanziaria ha identificato particolari procedure affinché si possa considerare una perdita (su crediti) definitiva. Nella circolare 19 luglio 1978, n. 131 protocollo n. 11/1730, è stato precisato che, nell’ipotesi di insolvenza di privati stranieri, è possibile ottenere dalle competenti Autorità giurisdizionali una dichiarazione di insolvibilità del debitore che, a tutti gli effetti, costituisce documentazione ai fini del riconoscimento dell’insolvenza medesima. Qualora, invece, l’insolvenza coinvolga un ente pubblico straniero, non appare possibile l’ottenimento di una simile documentazione. Per tale motivo, nella citata circolare 131/1978 e nella nota 16 maggio 1979, n. 9/656, è stato sostenuto che, nell’ipotesi in cui il debitore insolvente sia un ente pubblico estero, la dichiarazione di sinistro emessa dalla Sezione speciale per l’Assicurazione del Credito all’Esportazione - SACE, in seguito all’accertamento dell’insolvenza da parte di debitori stranieri, costituisca idonea documentazione ai fini della deducibilità della perdita su crediti.
L’Agenzia delle Entrate, con la circolare 10 maggio 2002, n. 39/E, ha ripreso tale concetto, precisando, peraltro, che è necessario dimostrare la definitività della perdita del credito, conformemente agli strumenti giuridici previsti nello Stato del debitore, ove non si possa ricorrere alle dichiarazioni di insolvenza dei debitori stranieri emesse dalla SACE; nella declaratoria è stato, altresì, precisato che la "certezza" della perdita su crediti deve essere riferita a specifiche situazioni riguardanti l’impresa creditrice e che una grave crisi economica e finanziaria che colpisca uno stato estero (vedi la crisi dell’Argentina del 2001) con il conseguente blocco dei pagamenti internazionali, sia da parte di enti pubblici che di soggetti privati, non consente, in via automatica, la deduzione delle perdite su crediti eventualmente contabilizzate dalle imprese italiane che vantano posizioni creditorie in quel Paese. Con la nota 9/656/1979 è stato, peraltro, sottolineato che, qualora la SACE non abbia concesso, ovvero l’importatore italiano non abbia richiesto la garanzia del credito, debba ugualmente consentirsi la deducibilità della perdita per la sopravvenuta insolvenza, pur in assenza di copertura assicurativa SACE, purché ricorrano le altre condizioni previste dalla citata circolare 131/1978, ossia che il debitore primario sia un ente pubblico esterno e che l’insolvenza sia motivata da difficoltà economico-valutaria dello Stato debitore, accertata dalla SACE. Il Ministero delle Finanze, quindi, ha ribadito come malgrado nella circolare 131/1978 sia espressamente previsto che nella dichiarazione rilasciata dalla SACE debba essere indicato l’indennizzo liquidato a titolo di risarcimento, nell’ipotesi in cui non vi siano posizioni garantite non pare possa escludersi che analoga documentazione egualmente probante in relazione ai crediti non assistiti da garanzia, per i quali non può sussistere la richiamata condizione, debba essere considerata, a tutti gli effetti, come documentazione idonea al riconoscimento (tributario) della perdita accertata; la perdita definitiva dovrà, peraltro, trovare imputazione secondo un principio di competenza, nell’esercizio in cui si manifesta.
 
Occorre in ultimo rilevare che, prima di imputare a conto economico una perdita su crediti, sussiste la necessità di utilizzare il relativo fondo svalutazione, laddove sia stato stanziato, fino ad esaurimento dello stesso. Il Ministero delle Finanze ha precisato, in merito, che “l’imputazione al fondo rischi delle perdite su crediti divenute definitive nel corso dell’esercizio va effettuata nel momento in cui si ha la certezza della perdita, mentre la determinazione della quota di accantonamento da imputare all’esercizio deve essere effettuata in sede di chiusura delle scritture contabili. Pertanto, qualora la perdita su crediti superi il fondo precostituito, quest’ultimo deve ritenersi completamente utilizzato e la relativa eccedenza può essere imputata al conto economico, per cui l’accantonamento da calcolarsi, nei limiti consentiti, sull’ammontare dei crediti esistenti a fine esercizio…potrà essere utilizzato per le eventuali perdite future”.
 
Alessandra Pederzoli

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