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le tracce dei morti

Nell’ultimo periodo ho ricevuto un certo numero di lettere che hanno in comune una domanda difficilissima: i morti vanno a finire in niente o qualcosa di loro resta da qualche parte?
Comincerò col dire che certamente i morti lasciano dietro di sé molte tracce: opere incompiute, ricordi, oggetti che portano il loro segno, eredità biologiche, personali ed umane, … . Tutto ciò significa che qualcosa di loro resta, ma si potrebbe dire che si tratta di un "passato" che, magari, fa fatica a passare e che influenza il presente e il futuro di chi resta, ma che prima o dopo passerà del tutto senza lasciare altra traccia che la nostalgia. Insomma, vi sono tracce dei morti che impiegano un po’ di tempo a diventare niente indicando che, forse, la morte di una persona è qualcosa di molto più lento della morte del suo corpo, una morte lunga, graduale, non identificabile con il preciso momento del trapasso.
Ma dietro la domanda che insistentemente le ultime lettere mi hanno posto vi è l’idea che ci potrebbe essere nel morire qualcosa che non passa, qualcosa che resta, un essere e non un nulla.
Tre sono le possibilità: la morte non lascia niente (il nulla), la morte lascia qualcosa (un essere), la morte lascia qualcosa che non si sa cosa sia (né essere, né nulla).
La prima alternativa sembra essere oggi la più probabile e la più fondata scientificamente. La seconda alternativa ha pochi ma agguerriti sostenitori in chi crede ad un qualche aldilà e in chi sente le voci dei morti. La terza alternativa si impone se nessuna delle prime due riesce chiaramente a prevalere.
Chi sostiene che i morti parlano cerca di farlo portando prove scientifiche, cioè cercando di far constatare oggettivamente che i morti parlano e dicono cose sensate e chiaramente ascrivibili ad una dimensione non riducibile a quella della vita corrente. Con grande fatica e con grande dedizione molte madri che hanno perso un figlio e non potevano sopportare che dopo la sua vita non ci fosse nulla, si sono dedicate con vari mezzi (scrittura automatica di medium tra la madre e il morto, registrazione di nastri vuoti o riascolto di nastri su cui erano registrate trasmissioni in lingua straniera, ...) ad ascoltare la voce dei morti. Cos’hanno sentito? I morti parlano? Ebbene, devo dire che ci sono casi in cui non si può negare che si ascolti qualcosa di sensato (una risposta ad una domanda che gli è stata posta, l’avvertimento di un avvenimento che ancora non è avvenuto, l’uso di parole che solo il morto e chi ascolta poteva conoscere).
Sono proprio le voci dei morti o fenomeni di registrazione di "energie" ancora sconosciute che tentiamo di interpretare per renderle sensate? Il desiderio di una mamma che non vivrebbe più senza la convinzione di poter ancora comunicare col figlio morto tende a rendere sensate anche le registrazioni più dubbie; quindi, si potrebbe pensare che sia una "proiezione" del desiderio a "produrre" le voci dei morti: forse che tutti i morti che comunicano con chi li sa ascoltare non dicono sempre che stanno benissimo di là, proprio come ogni mamma vorrebbe che il suo figlio morto stesse? Ma le cose non sono così semplici, poiché le voci possono essere ascoltate o decifrate nello stesso modo anche da persone che non hanno legami di parentela e desideri da proiettare. Io stesso, da scettico, ho ascoltato qualche "voce" molto chiara.
Che si tratti delle voci dei morti è allora dimostrato? No, se si considera che le voci diventano più chiare dopo la prima volta che si è attribuito loro un significato, cioè quando si cerca di sentire qualcosa che già si conosce. Potrebbe significare che, come dopo aver visto l’immagine di un uomo in una nuvola è più probabile che la si riveda, così è più probabile sentire una voce dire qualcosa dopo che si è creduto di sentirlo la prima volta.
Si tratterebbe allora di stimoli ambigui che possono essere "letti" in un modo o in un altro a seconda dell’atteggiamento assunto. Ho sentito quello che sembra una voce e, se sto cercando mio figlio, la prendo per la voce di mio figlio morto, se non lo sto cercando posso ammettere che sembra proprio una voce umana ma potrebbe essere qualcosa che "sembra" una voce umana. E poiché ciò che sembra qualcosa è in un certo senso quel qualcosa, ciò che sembra la voce di un morto è in un certo senso la sua voce. Ma non tutto è veramente ciò che sembra. Allora possiamo uscirne solo se ci mettiamo d’accordo sull’atteggiamento da assumere nel guardare ciò che stiamo guardando, altrimenti a me "sembrerà" una voce umana e per te "sarà" la voce di tuo figlio.
Ma come possono mettersi d’accordo sul modo di guardare il mondo chi può accettare la morte di qualcuno e chi non può accettarla? La questione appare allora come non decidibile: quando sembra è, ma non esclude che non sia quello che sembra!
Che il morto resti in qualche modo vivo e possa parlarci è altrettanto probabile quanto che esso sia morto anche quando sembra vivo. Che dopo la morte ci sia un essere è altrettanto probabile che non ci sia nulla. Si fa strada allora la terza alternativa: ignoriamo cosa ci sia di là! Né essere, né nulla!
Ma non sarà proprio questa ignoranza e il mistero che porta con sé che cerchiamo di evitare quando ci accaniamo a voler dimostrare "scientificamente" che il morto è vivo o che il morto è proprio morto? Siamo proprio sicuri che non si possa vivere, e vivere meglio, la morte di qualcuno ignorando se ne è rimasto qualcosa o se non è rimasto niente? Perché sempre ci fa tanta paura il mistero, e le domande che porta con sé? Perché pensiamo che si risolverebbe tutto se sapessimo come stanno veramente le cose? E se invece non ci fosse niente da sapere? E se invece il sapere non fosse tutto? E se ci fossero misteri inaccessibili di fronte ai quali conviene fermarsi rispettosamente interrogandosi senza aspettarsi risposta? Ammettere finalmente i limiti della conoscenza migliorerebbe o peggiorerebbe l’Umanità?
Sono domande che vanno approfondite e su cui torneremo.
 
Francesco Campione

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