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TIWANAKU

la città eterna delle Ande

Non sono mai stato in Bolivia. Sono stato però a Catania. E sebbene a un primo disattento esame possa sembrare che tra i due eventi non intercorra la benché minima relazione, fatto salvo il fatto che ambedue sono località geografiche, vi garantisco che una relazione c'è, esile, ma c'è.
Dunque, all'inizio di luglio mi trovavo a Catania per motivi legati alla mia professione di fotografo.
Ora, Catania presenta numerose peculiari caratteristiche affatto trascurabili, come per esempio essere il capoluogo della provincia nella quale si trova l'Etna, che è il vulcano attivo più grande d'Europa, e scusate se è poco. A Catania, ad esempio, si trova un mercato del pesce tra i più pittoreschi del Mediterraneo ed anche questo mi sembra un fatto degno di nota, pur se impallidisce di fronte alla quantità di belle ragazze che girano per il centro e che la sera affollano i numerosi locali all'aperto che pullulano di giovani.
E anche i locali serali e notturni non sono mica una cosa da ridere visto che la loro fiorente attività ebbe inizio, a detta degli stessi catanesi, soltanto otto anni fa, epoca nella quale prese avvio (così dicono loro) una sorta di rivoluzione sociale che ha portato la città a trasformarsi da tetra provincia siciliana teatro di coprifuoco serale a centro culturale particolarmente attivo.

In tale ambito, proprio per via di queste caratteristiche, mi ero spinto fino sull'isola, su suggerimento della Fondazione Italiana per la Fotografia, per andare a fotografare un complesso architettonico assolutamente singolare chiamato "Le Ciminiere". Si tratta di una antica fabbrica di zolfo trasformata appunto in centro culturale. Il reportage su "Le Ciminiere" fa parte di un ampio lavoro di ricerca che sto svolgendo sulle archeostrutture industriali ricondizionate e destinate a nuovi usi. Di questo avrei intenzione di parlare brevemente proprio in un prossimo servizio per Oltre dedicato alla morte e resurrezione dei vecchi complessi industriali.
Per tornare rapidamente all'oggetto del presente discorso vi dirò finalmente quale sia l'esile relazione che mi ha fatto collegare Catania alla Colombia.

Aggirandomi per gli edifici delle "Ciminiere" mi imbattei, in uno dei complessi di sale adibite a mostre e convegni, in una mostra di paleoantropologia. Lessi su un manifesto qualcosa come: "Tiwanaku - Città eterna delle Ande". Al di sotto della scritta campeggiava un faccione da antico indio scolpito nell'oro.
Adducendo banali scuse, farfugliando che mi trovavo lì per un fotoreportage e che quindi ero un addetto ai lavori, riuscii a scroccare un ingresso gratuito (Lire 12.000 compresa l'audioguida) ed ebbi pure l'onore di essere introdotto ai misteri di Tiwanaku dallo stesso curatore dell'evento. Scoprii così che la mostra aveva girato già mezza Italia, passando per Milano e Genova, che era stata in Sardegna e che era previsto poi lo spostamento a Roma. Nel momento in cui verrà pubblicato questo articolo ritengo che la mostra sarà ancora a Roma.

All'interno della mostra, che è davvero suggestiva, sono esposte vestigia antichissime che risalgono fino al 1.000 A.C. Si possono ammirare pietre, lapidi, strumenti musicali, ricostruzioni a dimensione naturale di edifici rituali. Una delle caratteristiche più rilevanti è la quantità, e qualità, delle statue che raffigurano animali simbolici come puma, condor, pesci e soprattutto il lama, importantissimo per la sopravvivenza e l'economia delle popolazioni andine.

Altre statue, di squisita fattura, rappresentano il volto umano, di solito personaggi di alto rango nell'atto di compiere cerimonie con i volti quasi sempre caratterizzati dalla presenza di un edema al lato destro della bocca ad indicare l'uso rituale della coca.
I volti umani si trovavano anche su vasi rituali, ma nell'intrigante percorso della mostra quello che mi impressionò particolarmente fu la quantità di oro usato con sorprendente maestria nel confezionare maschere, diademi con incastonate pietre preziose, pettorali, collari e fermagli.

Erano esposti anche numerosi oggetti in metallo come lance, spade o asce. Ma quello che mi colpì di più, al di là della bellezza di ogni singolo reperto, era il livello evolutivo di una civiltà ancora poco conosciuta e risalente a periodi remoti che gli studiosi hanno suddiviso in tre grandi gruppi: pre-statale, statale e imperiale. Una storia durata più di duemila anni e conclusasi nel 1.200 D.C. nel corso della quale "lo stato di Tiwanaku esercitò la sua influenza su aree vastissime del Sud America, attraverso una complessa articolazione di apparati ideologici e tecnico-amministrativi molto ben strutturati".

Fu una civiltà che raggiunse il suo massimo splendore dal quinto al nono secolo (dell'era occidentale) sviluppando una quantità di conoscenze che spaziavano dall'aritmetica all'agricoltura, dall'edilizia all'artigianato artistico.
Nel percorrere gli scenografici meandri dell'esposizione mi imbattei verso la fine in alcune bacheche sapientemente illuminate che risvegliarono in me l'interesse in qualità di redattore di Oltre. Erano esposti crani deformati e alcune mummie. Immagini davvero succulente per la nostra testata. Sembra che la pratica della deformazione cranica fosse iniziata a Tiwanaku per motivi religiosi. Era molto diffusa e veniva realizzata fin dalla prima infanzia per orientare la crescita delle ossa in una determinata direzione.
Le sepolture invece venivano praticate con diverse modalità. Una di queste in particolare, la mummificazione, veniva realizzata con l'asportazione delle viscere (dopo la morte!) e con il posizionamento del corpo in posizione fetale, posizione conosciuta nella loro lingua con il nome di Kontata Amaya. Il corpo veniva poi avvolto in sacchi intessuti in fibra vegetale e la mummia così ottenuta veniva deposta all'interno di torri o mausolei funerari, i Chullpares.

I risultati spettacolari così giunti fino a noi sono ciò che mi indusse a posizionare il cavalletto e a realizzare queste fotografie. Dite quello che volete, ma oggi di mummie così, in giro, non se ne vedono più!
 
Mauro Villone


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