Di fronte ai disastri, oltre agli aiuti umanitari per limitare i danni e per avviare la ricostruzione, l'Umanità ha bisogno di trovare "significati" che rendano il Male concepibile, sopportabile e superabile. Tutti possono dare un contributo in questa ricerca. Tanto più coloro che per il proprio lavoro quotidiano (gli Operatori Funerari o quei Tanatologi e quegli Psicologi che si dedicano ad aiutare le persone a morire e ad elaborare il lutto) si pongono da sempre il problema del "senso della morte". Riflettiamo. La morte è una minaccia che incombe sulla vita umana fin dalla nascita sotto varie forme. Quelle principali oggi sotto gli occhi di tutti sono le minacce della Natura (malattie, disastri, sconvolgimenti climatici o ambientali, ...) e le minacce della convivenza tra gli uomini e le culture (dalla disperazione dell'abbandono, che porta al suicidio, alla passione di dominare gli altri, che porta all'omicidio e alle tante forme della guerra).
L'esperienza di vita e la cronaca ci propongono ora l'una ora l'altra di queste minacce. In questi giorni i nostri occhi sono pieni delle immagini e delle lacrime del disastro dell'Oceano Pacifico. Si è trattato del materializzarsi di una minaccia della Natura? Sì e no. Sì, perché i terremoti e i maremoti non sono gli uomini a determinarli con le loro scelte. No, perché il numero dei morti e le conseguenze ecologiche, economiche e sociali del disastro sono chiaramente in relazione con le scelte umane.
Basti pensare che nelle aree del maremoto vivevano tante persone che vi si erano trasferite in massa per lavorare nell'industria del turismo e che un monitoraggio dei maremoti e la conseguente possibilità di evacuare in tempo le zone interessate non era considerato economico, potendo essere utile solo ogni 100-200 anni e solo imprevedibilmente. E ben sappiamo che ciò che non è prevedibile nei suoi costi e nei suoi benefici tende a non essere preso in considerazione in una cultura che basa molte delle sue difese sulle previsioni economiche.
Che ci si riferisca sia alla parte positiva che a quella negativa della risposta, appare chiaro che un disastro come quello del sud-est asiatico indica che ci si può difendere da tali minacce solo unendo gli sforzi di tutti, e quindi tenendo conto dei bisogni di tutti.Ma che tali minacce riguardino tutti indistintamente si evidenzia solo quando la minaccia si è materializzata ed è diventata disastro. La morte di massa ha infatti accomunato nel terrore, nella nudità e nell'abbandono i "ricchi" turisti e albergatori occidentali così come i loro "schiavi" asiatici. Il panico ha toccato tutti, tutti i cadaveri saranno seppelliti in fosse comuni o bruciati nelle stesse pire, tutti arriveranno in ritardo ai funerali dei loro cari, i bambini e gli orfani si sono sentiti e si sentiranno abbandonati a prescindere dal colore della pelle o dal precedente stato sociale.
Ma non era certo così il giorno prima del maremoto, né è stato così il giorno dopo. Non sarà questo il significato di un disastro: che nonostante le differenze siamo tutti vulnerabili allo stesso modo? Fino al giorno prima del disastro le differenze contano e le scelte, che riguardano poi tutti nella tragedia, si fanno in base agli interessi di alcuni o di pochi. E il giorno dopo è lo stesso. Non sarà che l'Umanità vive secondo le esigenze di quella sua parte per cui i disastri sono meno probabili, e cioè come se i disastri non dovessero mai accadere? Certo, ognuno ha il diritto di vivere desiderando che nessuna minaccia di morte lo colpisca; ma non finisce questo per significare, sapendo per esperienza che le minacce da qualche parte colpiranno comunque, che si vive desiderando che esse colpiscano qualcun altro?
Stando così le cose, l'unica soluzione potrebbe essere che, se tutti siamo vulnerabili alle minacce, se le minacce prima o poi da qualche parte colpiranno, se, al tempo stesso, vogliamo vivere sperando che non ci colpiscano mai, sarebbe giusto che ognuno si preoccupasse della vulnerabilità degli altri. L'unico modo per essere "spensierati" in un mondo pieno di minacce è quello di stare in pensiero per gli altri!
Ad esempio, invece di rifugiarsi nel Paradiso delle Maldive per allontanarsi dalle minacce che incombono nell'inferno della vita quotidiana (cioè per vivere una "vacanza" che consiste nel vivere lontano dalle minacce e soprattutto dimenticandosele), potremmo preoccuparci della vulnerabilità delle Maldive (cioè della fragilità delle loro barriere coralline e della povertà dei loro abitanti). Scopriremmo che forse il nostro sistema di vita ha qualche responsabilità nell'erosione delle barriere coralline e nella povertà del terzo e del quarto mondo, e forse torneremmo a fare qualcosa per migliorare questo mondo. Chissà poi che gli abitanti delle Maldive non finirebbero per ospitarci a casa loro per esserci preoccupati, anche a costo di dover cambiare le nostre condizioni di vita, della loro vulnerabilità e di quella del posto in cui hanno avuto secondo noi la fortuna (fino a ieri) o secondo loro la sfortuna (fino ad oggi) di vivere?
E invece ciascuno si occupa prevalentemente solo della propria vulnerabilità, e non gli resta che rafforzare le proprie difese spesso a scapito di quelle degli altri. Come accade quando per distrarsi dalla propria vulnerabilità si va in vacanza in un Paradiso che per chi ci vive può essere un Inferno, dimenticando così anche che, se non ci si preoccupa del Paradiso (cioè della sua vulnerabilità), qualsiasi Paradiso può diventare un Inferno per tutti.