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Vita e morte di Chet Baker

Il suono dell'anima

"Cos’è il Jazz? Amico, se lo devi chiedere, non lo saprai mai".
Chet Baker
 
L’estate del 1960 si rivelò particolarmente torrida. L’arresto in Versilia di Chet Baker contribuì a rendere quei giorni ancora più caldi. Lo trovarono in un autogrill a San Concordio in evidente stato confusionale. Venne arrestato per possesso di stupefacenti.
Chi era Chet Baker? Il genio capace di intuire sonorità e strutture musicali di alto valore artistico oppure il demone maledetto vittima di se stesso? Difficile dare una risposta chiara e definitiva. Di certo c’è che l’eroina lo aveva trascinato agli inferi, rendendolo schiavo. Chet riusciva ad affrancarsi da quella condizione solo quando suonava. La musica era l’unica cosa in grado di allontanarlo, perlomeno temporaneamente, dalla droga.
Dopo essere stato riformato dal servizio militare per non meglio precisati problemi psichici, il musicista si era trasferito in California. All’inizio degli anni ’50 la musica a Los Angeles era in pieno fermento. Il Rock’n’Roll aveva ridisegnato le coordinate del ballo, mentre la musica Jazz stava riscoprendosi attraverso il talento di artisti che da lì a poco ne avrebbero riscritto inesorabilmente le sorti. Chet Baker era uno di questi. Insieme a Jerry Mulligan e al suo quartetto diedero vita al celeberrimo West Coast Sound. Una rivoluzione in piena regola che stravolse le sorti non solo del Jazz: quel nuovo modo di concepire la musica segnò indelebilmente le generazioni future. Attraverso la World Pacific Records l’artista ottenne un contratto con il Tiffany Club. A soli 22 anni il talento di Yale si ritrovò in tour con Charlie Parker, uno dei padri fondatori del Jazz.
A tal proposito Chet nella sua biografia dice: “Un giorno durante l’estate del ’52 trovai un telegramma sotto la porta di casa. Me lo mandava Dick Bock, mi pare, e diceva che Charlie Parker stava facendo audizioni ai trombettisti per alcune date nei club della California. L’audizione avrebbe avuto luogo quel giorno stesso alle tre al Tiffany. Mi precipitai, arrivando un po’ in ritardo, e potei sentire Bird che improvvisava su un pezzo con qualche trombettista. Facendomi largo a spintoni nell’oscurità del club, riuscii ad intravedere Bird sul palcoscenico che volava su un blues. Mi sedetti per un minuto o due, e mi guardai intorno. Riconobbi molti trombettisti ed un sacco di altra gente che conoscevo e che aveva saputo che Bird era lì. Vidi qualcuno salire sul palco e dire qualcosa a Bird. Mi sentii molto a disagio e molto nervoso quando chiese alla folla se io fossi nel club e se avessi voluto salire sul palco a suonare qualcosa con lui. Aveva passato in rassegna tutti quegli altri ragazzi, alcuni dei quali con molta più esperienza di me e potevano leggere qualsiasi cosa gli avessero messo davanti. Suonammo due pezzi. Alla fine lui annunciò che l’audizione era finita, ringraziò tutti quanti per essere venuti e disse che avrebbe assunto me”.(da “Come se avessi le ali. Le memorie perdute”, Edizioni Minimum Fax).
L’esperienza con “Bird” si rivelò fondamentale per il prosieguo della sua carriera. Dopo aver formato un quartetto tutto suo, Chet venne più volte eletto “musicista dell’anno” dalle riviste specializzate. Intorno alla metà degli anni ’50 Baker aveva raggiunto una popolarità enorme. I premi e i riconoscimenti arrivarono da ogni parte e con loro cominciarono i primi guai con la droga. Decise di abbandonare temporaneamente gli Stati Uniti: l’Europa lo stava aspettando, e proprio in Italia il geniale compositore trovò le condizioni ideali per crescere artisticamente. Durante il periodo italiano Chet Baker registrò numerose sessions divenute nel tempo autentiche gemme appartenenti al suo vasto repertorio. Ad un primo arresto per possesso di droga ne seguì un secondo, ma gli inconvenienti non si limitavano all’eroina. Chet spendeva molto più di quanto guadagnava, e questo fatto nel tempo si rivelò più grave del previsto. L’artista non riusciva a rispettare gli impegni con i propri creditori e l’ennesimo accordo non rispettato risultò fatale. Chet Baker venne pestato a sangue mentre cercava di acquistare droghe dopo un concerto a San Francisco e si ritrovò completamente privo dei denti anteriori, menomazione molto grave per un trombettista. Era il 1966 quando la sua carriera andò in pezzi: aveva 36 anni e al culmine del successo decise di sparire dalle scene.
Da quel momento Chet, trovandosi anche in difficoltà economiche, visse di espedienti. Si guadagnava da vivere facendo quello che gli capitava, tenendo conto che i problemi con la droga erano tutt’altro che risolti. La svolta avvenne quando un fan lo riconobbe nelle vesti di commesso di una pompa di benzina: non solo lo aiutò a rimettersi in sesto, ma gli diede anche i soldi per sistemarsi la bocca. Chet ricominciò a suonare la tromba con la dentiera, cosa considerata estremamente difficile. La vita tornò a sorridergli e riuscì, in quel periodo, a disintossicarsi perlomeno parzialmente. Abbandonò Los Angeles, divenuta per lui una città troppo a rischio, e si trasferì a New York, dove iniziò a registrare con altri rinomati musicisti jazz, come Jim Hall. Uno dei dischi più maledetti e commoventi è proprio l’album del ritorno, She was good to me, un manifesto di tutto ciò che era Baker in quel lasso di tempo. Un uomo consumato dai vizi, incapace di suonare la tromba come un tempo, ma che aveva imparato ad utilizzare un altro strumento: la voce. Un mantra capace di scaldare le note, biascicate da una bocca di ceramica; nonostante questo, Chet aveva imparato a cantare il dolore come solo Billie Holiday aveva saputo fare.
Ritornato a vivere in Europa, verso la metà degli anni ’70 registrò con Elvis Costello Shipbuilding: l’assolo di tromba sul finire della canzone restituì Chet Baker ai fasti di un tempo. Prima di morire Baker tornò spesso in Italia. Nel suo ultimo periodo a Roma lo si vedeva girare a Monte Mario, in cerca della dose giornaliera: il Jazz era diventato funzionale alla sua stessa sopravvivenza. Le collaborazioni di quegli anni servirono per sopravvivere, ma soprattutto per comprare la droga che sempre più lo stava uccidendo.
La sua morte potrebbe sembrare degna di un film noir. I fatti raccontano che l’artista cadde accidentalmente dalla finestra di un albergo vicino alla stazione di Amsterdam. La verità invece resta nascosta tra le pieghe del tempo. Le foto di quella notte mostrano il musicista in posizione fetale. Il lenzuolo steso sopra di lui lasciava solo trasparire le sue scarpe, consumate almeno quanto la sua vita. In seguito gli esami della scientifica stabilirono che Chet quella sera non aveva assunto eroina: difficile credere ad un incidente. La ringhiera della stanza d’albergo era troppo alta per pensare ad una disgrazia. Forse la notte del 13 maggio 1988 l’ennesimo creditore non si era lasciato comprare dalle solite promesse rassicuranti del cantante. Quella notte inconsapevolmente qualcuno aveva ucciso il Jazz.
 
Marco Pipitone

HANNO DETTO DI LUI:
 
Lui era il diavolo incarnato. Una figura mefistofelica che lasciava sul campo morte e disperazione. Chi gli stava intorno prima o poi sarebbe incappato in un guaio”.
Diane, una delle sue ultime compagne
 
Con Chet ogni concerto era un’avventura. Una volta siamo andati ad inaugurare il Palazzetto dello Sport di Mantova davanti a cinquemila persone. L’organizzatore disgraziatamente gli ha detto: “Mi raccomando Chet, stasera faccia dei pezzi un po’ veloci e allegri”. Allora lui ha cominciato e finito con “My Funny Valentine” (brano bellissimo, ma né veloce né allegro). Era un artista. Aveva tutte le qualità degli altri musicisti ed in più il fascino di una maniera unica di suonare e di cantare. Mi raccontava che aveva iniziato suonando il trombone, ma gli piaceva soprattutto cantare. Così, quando da militare gli hanno dato una tromba lui si è messo a cantarci dentro”.
Gianni Basso
 
Nel 1973 ero a New York quando ho letto sul giornale “Chet is back”. Sono, così, andato a sentirlo all’Half Note, al rientro dopo bruttissime avventure di vita. Non era più brillante come agli esordi perché fisicamente era assai provato, ma era sempre grandissimo ed il suo suono era diventato il suono dell’anima. Come, infatti, scriveva Proust in “À la recherche du temps perdu” la bellezza di un suono non sta nella perfezione, ma nell’essere il suono dell’anima. È questo suono che esprime perfettamente se stessi e che ogni strumentista deve cercare. E Chet ce l’aveva”.
Enrico Rava

 
NON TUTTI SANNO CHE...

All’esterno del Prins Hendrik Hotel di Amsterdam c’è una targa che recita: “Il trombettista e cantante Chet Baker morì in questo luogo il 13 maggio 1988. Egli vivrà nella sua musica per tutti quelli che vorranno ascoltarla e capirla”.

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