Rotastyle

Per celebrare la morte nel nostro tempo

Suggestione di architetture paleo-industriali

Il primo approccio con l’area di progetto inizia con una passeggiata, un martedì mattina di settembre. Scesa dall’autobus, procedo su un marciapiede rettilineo fra auto parcheggiate, biciclette e signore appena uscite dai negozi con il trolley colmo di spesa. Ad un certo punto la fila di vetrine addossate alla strada finisce e si apre una zona più ampia, abbastanza confusa, di un verde disordinato delimitato da un cancello arrugginito, estranea al tumulto cittadino.
Poco più in là, attraversato il Navile su una passerella di cemento già di fronte la Certosa, mi immetto nel sentiero che corre a lato del fiume, all’ombra del muro di cinta del cimitero. Di qui si entra nel retro della città, dove in tuta si porta il cane a sgambare e dove il traffico è un ronzio dietro gli alberi. Anche i palazzi si affacciano spettinati sulle sponde del fiume, una fila di depositi precari in mattoni a vista e lamiere, spazi improvvisati e desueti da anni. Architetture morte. Comincio a pensare ad una officina appena abbozzata confusa fra gli alberi, ad un solo piano, ovattata e laboriosa, dove il senso delle cose si trova a testa bassa fra gli sfridi della lavorazione. Ritorno alla strada e riconosco gli alberi maestosi nutriti dal fiume, incastonati fra gli edifici, e penso che mentre la città si trasforma essi rimangono ingredienti invarianti del composto, elementi vitali anche quando l’architettura si arrugginisce.
 La difficoltà principale nel progettare un’architettura funeraria è forse quella di immaginare il delicatissimo dialogo che essa sarà in grado di instaurare con le più intime “percezioni del sé e della propria ragion d’essere” delle persone che vi saranno accolte. D’altronde quale sia il senso della vita e della morte è “la domanda” per eccellenza con la quale necessariamente l’architettura del commiato deve confrontarsi, rispettando le molteplici sensibilità dei suoi visitatori senza sapere dare risposte definitive. La realtà contemporanea è caratterizzata prima di tutto dall’estrema complessità e dalla varietà di cui sono costituiti i sistemi che determinano le logiche del vivere quotidiano e le attitudini dei singoli componenti della compagine sociale, sempre più “mondi a sé”, sempre più “singles”. Mentre da un lato architetture che nascono dall’interpretazione della realtà in accordo con la tradizione rischiano di risultare inefficaci, dall’altro la ricerca di nuovi parametri di indagine può portare ad architetture alienate rispetto all’identità del contesto. Anche il sacro, valore significante per eccellenza, subisce in questa declinazione “poli-referenziale” una perdita di riferimenti iconografici e di lessico tradizionale di fronte alle nuove esigenze e ai presupposti che animano il quesito architettonico. Allo stesso tempo, però, temi progettuali radicalmente nuovi, come questi, forniscono l’occasione e la necessità di spogliarsi di ogni prefigurazione conosciuta e di ricercare un linguaggio innovativo più adeguato.
Immagini il lettore di camminare nella propria città, nel proprio quartiere, mentre scende una nebbia sempre più densa. Poco a poco scompaiono i palazzi al contorno e le macchine rallentano fino quasi a fermarsi e a non farsi più sentire, mentre i piedi calpestano un terreno indistinguibile fintantoché anche le mani sono come immerse in un fluido conformante che priva le cose di consistenza. Ciononostante se, anche persa la percezione visiva delle cose, guardiamo a sinistra e sappiamo riconoscere la luminescenza sospesa dei fari delle auto, l’odore di caffè del solito bar davanti al quale si è passati centinaia di volte e quel fruscio di foglie che raffigura il parco ... così, una dopo l’altra, si riconoscono le soglie che ogni giorno si attraversano e che si rivelano anche senza più bisogno di essere viste. Le soglie, ossia i luoghi ove qualcosa di nuovo si manifesta, diventano elementi genetici del paesaggio, quindi elementi sacri, fondanti l’atto del riconoscere e quello del distinguere. E che cos’era il recinto di sassi o lo strato di porpora rossa che gli uomini del neolitico ponevano sui cadaveri se non l’esibizione di una soglia, la fondazione di un “oltre” attraverso l’erezione di un confine? Ecco allora l’idea di concepire l’intero lotto di progetto come un unico giardino urbano, coperto da una trama continua, filtro di luce e di rumori, al di sotto della quale lo spazio si organizza per successione e per interazione fra soglie di diversa natura: sonore, climatiche, tattili e visive. Ricerco un'architettura precaria, effimera, incapace di dare risposte o consolazione, ma in cui il senso dell’Essere o del Non Essere (più) si riveli nudo, senza alcuna giustificazione teologica, ma aperta ad un dialogo con chiunque abbia una esperienza di vita da raccontare.

Una prima traccia generativa del progetto è data dalla presenza di tre alberi ben sviluppati, di cui uno particolarmente imponente sul confine, che senza dubbio costituiscono gli elementi identificativi del lotto e che in generale appartengono al panorama caratteristico di quella porzione di città. I tre alberi, un abete e due tigli, sono stati considerati elementi imprescindibili del sistema di soglie in embrione e i rispettivi allineamenti con gli edifici limitrofi, probabilmente non casuali, hanno determinato una prima macro suddivisione del lotto in due porzioni trasversali, ciascuna referente alla direttrice adiacente: la strada o il fiume. Una caratteristica fondamentale del progetto è costituita dalla doppia direzionalità di accesso. Infatti si prevede che il flusso di visitatori potrà provenire tanto dal parcheggio e dal percorso ciclopedonale della Certosa quanto dalla strada principale a sud, accedendo direttamente dal marciapiede.
Il lotto risulta così ripartito esattamente secondo le quattro zone cardinali, l’una individuata dai filari degli alberi, l’altra disegnata dall’asse dei percorsi. Si individuano così quattro quadranti a cui vengono attribuite funzioni distinte: a nord-ovest la zona destinata alle cerimonie (le camere del commiato propriamente dette), a sud-ovest una piccola sala per la tanatoprassi, specialmente dedicata alle forme cultuali che prevedono una preparazione particolare del corpo, unicamente effettuata dai congiunti: e così non solo ambiti tecnici, ma spazi curati nel dettaglio per permettere un intimo e ultimo rapporto fra il defunto e la famiglia. A sud-est il lotto si apre in un giardino pubblico della memoria e, infine, a nord-est si sono ricavati gli spazi destinati al personale e ai servizi di relazione col pubblico. Il giardino occupa la maggior parte del fronte sud, dilatando all’improvviso lo spazio libero a fianco della strada e accogliendo i passanti al riparo del pergolato.
Procedendo quindi per un susseguirsi di soglie, come in una progressione di protezioni (dallo spazio aperto al pergolato, alle porzioni completamente coperte, ai locali chiusi) si entra nella grande sala separata dal giardino in modo sfuocato da pareti semitrasparenti, come in una serra traslucida. Camminando nella sala ci si imbatte a questo punto in segni netti: grandi tubi che dal pavimento salgono per poi sparire nel soffitto ed uscire come ciminiere di una nave, o gigantesche sezioni di architetture industriali del secolo scorso. Ci si aspetta forse di procedere in un luogo ancora più recondito, definitivo e concluso, in una cella scrigno nel cuore della sala, ma una volta entrati non si può più dire con certezza cosa o chi sia dentro o fuori, dove l’interno, dove l’esterno. L’estetica gigante di questa macchina architettonica pensata come un relitto di età paleo-industruale individua aree e spazi senza distinguerli propriamente. I tubi proseguono oltre la copertura portando al di sotto di essa una porzione di paesaggio ed innestando improvvisamente in questo spazio prevalentemente orizzontale una improvvisa dimensione verticale, senza alcun richiamo ad una esplicita trascendenza. I tre tubi di 6 metri di diametro sono collocati seguendo un sistema di allineamenti che si riferiscono agli alberi, al fiume, alla cinta muraria del cimitero e agli edifici circostanti. In questo modo si individua in negativo uno spazio fluido che, percorso, offre scenari continuamente mutevoli e di relazione con il contesto.
La particolarità delle sale consiste nel sistema di chiusura semicircolare scorrevole, che permette di ottenere tre configurazioni principali adattabili a rituali diversi. La configurazione base è quella in cui le sale possono essere chiuse completamente per cerimonie intime di poche persone (al massimo una cinquantina ciascuna) che possono avvenire anche contemporaneamente; la configurazione più allargata prevede invece la possibilità di aprire una porzione delle sale dilatando lo spazio per la cerimonia alle sedute esterne, mantenendo al tempo stesso ambiti più protetti per i familiari più stretti. Fra queste due configurazioni è possibile individuare soluzioni intermedie, caratterizzate da una spazialità flessibile, ma non caotica: infatti il sistema di tubi a pareti scorrevoli permette di ottenere gerarchie spaziali in base alle quali organizzare i flussi e le funzioni.
Anche per quanto riguarda i materiali e le tecnologie costruttive sono state fatte scelte essenziali e contrastanti, che richiamassero l’immagine pratica e provvisoria delle costruzioni affacciate sul fiume, estetica di stabilimenti industriali in disuso, prevedendo la possibilità di componenti prefabbricate, di posa rapida e precisa, facilmente sostituibili e manutenibili. Le pareti sono suddivise in moduli di circa 2 metri di lunghezza e 3,5 metri di altezza ciascuno, così da poter essere composte con passo regolare ed ancorate ai pilastrini di bordo in acciaio. Tutto il perimetro del complesso è stato modulato alternativamente con elementi traslucidi e vetro trasparente a seconda della destinazione d’uso e del particolare effetto di incidenza della luce desiderato. In questo modo si garantisce la completa permeabilità dell’esterno verso gli spazi propriamente interni, definendo un confine quasi impercettibile dove i riflessi, le sagome e i colori si sovrappongono, consentendo al giardino di diffondersi dalla strada al fiume con continuità, passando attraverso i locali per le cerimonie e gli uffici, e di congiungersi al parco retrostante proseguendo sul ponte.
Prevalentemente in policarbonato sono tutte le partizioni interne, comprese le superfici che definiscono i tubi delle sale per il commiato; quest’ultime sono colorate con tonalità calde. Le porzioni semicircolari mobili dei tubi sono montate su guide inserite a pavimento e a soffitto, che permettono così alle pareti di scorrere e di comporre le diverse configurazioni spaziali necessarie. Il raccordo fra la porzione di tubo al di sopra e al di sotto della copertura avviene nello spessore del solaio dove sono ancorati i tubolari metallici che costituiscono il telaio di scheletro per la doppia pelle di rivestimento: policarbonato e rete stirata al di sotto, lamiera metallica e rete stirata al di sopra. La porzione di tubo che fuoriesce dalla copertura, piegandosi verso nord, risulta prima di tutto funzionale per raccogliere la luce e per illuminare gli spazi più interni. L’effetto di illuminazione che ne deriva è particolarmente suggestivo: la luce proviene sempre da nord e quindi si diffonde all’interno in modo indiretto, senza forti contrasti o abbagli e al tempo stesso evitando il surriscaldamento delle partizioni metalliche. Inoltre i raggi luminosi compiono un percorso di riflessione e di rifrazione su superfici di differenti materiali e inclinazioni creando, man mano che si procede dall’esterno verso l’interno, scenari differenti. In una prima fase la luce colpisce il rivestimento convesso in rete stirata della porzione di tubo piegato, diffondendosi a pioggia su tutta la sala fino ad arrivare alla base e inondandola di una luce calda, avvolgente e uniforme, mentre le sagome delle foglie e del cielo si proiettano all’interno fondendosi con le ombre delle persone. Altrove la luce filtra attraverso le pareti di policarbonato, colorando e illuminando in modo soffuso l’intorno.
Le partizioni orizzontali emergono in modo dominante, massivo, materico, delineando due spessi strati, separati da elementi evanescenti, quasi inesistenti, perforati solamente dai grossi alberi e dai tubi. La copertura getta la propria protezione su tutto il lotto, resa uniforme e continua da una coltre di piante rampicanti che si sviluppano dal solaio cementizio al pergolato in legno lamellare. Le piante sono concepite come un materiale vivo dell’architettura che continuamente si trasforma durante le stagioni e il succedere degli anni, mediando l’incidenza del sole e dei rumori, creando particolari effetti olfattivi e soprattutto enfatizzando quel senso di copertura-rovina. Il solaio di copertura è stato pensato con uno spessore strutturale in blocchi modulari autoportanti che costituiscono al tempo stesso la cassaforma a perdere per il getto di calcestruzzo ed uno strato isolante, grazie al materiale di cui sono costituiti. Inoltre il sistema modulare rappresenta un efficacie dispositivo per ottenere un comportamento tipo “lastra” del solaio e quindi svincolarlo dalla disposizione regolare dei pilastri che a loro volta potranno seguire in modo più flessibile la forma libera della pianta. All’interno è previsto un controsoffitto in rete stirata che richiama l’interno delle sale, adatto ad ospitare gli impianti di illuminazione artificiale e a favorire l’ispezione per la manutenzione. All’esterno il solaio di copertura è completato con uno strato di terriccio ben isolato da guaine geotessili per far crescere la vegetazione. Per quanto riguarda invece l’area di calpestio, la finitura superficiale è in cemento a vista, trattato in diversi modi per rispondere adeguatamente alle funzioni che si svolgono e allo stesso tempo per avere una coincidenza percettiva fra interno ed esterno suggerendo l’unitarietà del giardino.

 
Marta Guaraldi


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