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Le storie di una vita incredibile

"morire è la cosa più brutta che mia sia mai capitata" Edward Bloom
Il padre ama raccontare storie incredibili riguardanti la propria vita. Il figlio, ormai trentenne, non apprezza più. Il loro è il consueto conflitto generazionale che rende distanti, delusi, estranei. Il figlio non si riconosce in un padre che vive in un mondo di fantasia costruito a parole, il padre non si riconosce in un figlio così ancorato alla realtà di tutti i giorni. I due non si parlano da anni quando il figlio riceve la notizia: al padre resta poco tempo da vivere. Così, corre al suo capezzale e il loro delicato rapporto viene prevedibilmente rimesso in discussione.
Niente di nuovo sotto il sole, si dirà. Ma Big Fish non è la solita storia di pentimento e di redenzione: il risanamento del rapporto padre-figlio è il pretesto usato da Burton per dare libero sfogo alla più sfrenata fantasia, imbastendo un racconto atipico e plasmando un mondo, quello narrato, popolato da creature insolite e divertenti. Il film è il trionfo della immaginazione. È l’ordinario che legittima lo straordinario, o lo straordinario che guarisce l’ordinario. È una favola, anche nel senso più convenzionale del termine, perché utilizza tutti gli elementi canonici del genere alterandoli e de-normalizzandoli: c’è il padre-eroe (uno strafottente Ewan Mc Gregor da giovane, un appassionato Albert Finney da anziano), fiore all’occhiello della religiosa cittadina di Ashton, Alabama. L’eroe è belloccio, intelligente ed eccelle in tutto (che noia). La sua vita però non lo soddisfa: vuole fuggire da una realtà in cui è osannato, ma che gli sta stretta; e questo desiderio di evasione coincide con le sue – poco eroiche – ambizioni (“I was intended for larger things”, “Sono stato destinato a cose più grandi”). Dopotutto, non si offre di salvare la città dal gigante per una qualche nobiltà d’animo, ma lo fa perché è l’unica maniera di scappare lontano.
C’è la bella (la graziosa Alison Lohman del passato, la splendida Jessica Lange del presente), promessa sposa al rivale, che non è né docile, né indifesa, ma intelligente ed indipendente. C’è il rivale appunto, l’amico d’infanzia invidioso e irascibile, il fidanzato della bella che però esce di scena in modo molto poco favolistico. E poi ci sono i mostri, che mostri in realtà non sono: un gigante, due gemelle siamesi, il bassissimo direttore di un circo itinerante (un inconfondibile Danny De Vito il cui cameo è, insieme a quello di Steve Bushemi, uno dei più riusciti). Big Fish è dunque una favola rivisitata, un apologo della fantasia godibile anche se non esaltante, che tocca picchi di notevole creatività (il montaggio poco lineare come poco lineare è la storia; il finale a sorpresa, da occhi lucidi, che ripercorre l’intera vicenda; la sequenza del colpo di fulmine tra l’eroe e la bella), ma che allo stesso tempo indulge in artifici retorici che appesantiscono la narrazione (la musica eccessivamente celebrativa, anche nel finale; l’inconcludenza di alcuni dialoghi; l’uso a volte troppo insistito della voice over). La matrice burtoniana è presente in senso lato: la pellicola è un’opera di fantasia sulla necessità di fantasia. Ma il vero Burton, quello delle atmosfere fosche e dai finali non sempre positivi, qui smussa la propria indole dark per ripiegare sul gentile e sul delicato. L’impresa riesce con relativi meriti (il film riscuote un notevole successo di pubblico), ma il cinema del regista perde il proprio tratto distintivo per accostarsi ad un “criterio visivo” più maturo, ma certamente meno personale.
 
Laura Savarino
BIG FISH
(USA, 2003)
di Tim Burton
 
Durata: 110 minuti
Cast: Ewan Mc Gregor, Albert Finney, Billy Crudup, Jessica Lange, Alison Lohman


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