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LA STANZA DEL FIGLIO

Sono andata al cinema a vedere il film "La stanza del figlio", di Nanni Moretti.

Non voglio certo farne una critica dal punto di vista qualitativo perché non ne sarei in grado, né mi interessa parlarne dal punto di vista cinematografico, malgrado lo ritenga un bellissimo film.

Vorrei invece fare alcune riflessioni personali.

Innanzitutto sono stata molto colpita dal fatto di avere avuto difficoltà a trovare qualcuno disposto a vedere tale film. E non perché in giro si dica che non sia un film valido; malgrado il generale giudizio positivo che ha riscontrato, le persone hanno timore di vederlo.

Come se rappresentasse un pericolo, un rischio, la possibilità di scuotere quella calma piatta apparente che spesso ci si autoimpone per tenere nascoste eventuali angosce più profonde, per timore che un film del genere possa sollevare un velo che ricopre elegantemente il mondo interno in cui abitano fantasmi antichi che non si possono lasciare andare, che non si possono fare vedere a noi stessi ma soprattutto agli altri, ma un velo le cui trame al tempo stesso non sono abbastanza fitte per non lasciare intuire, in trasparenza, la presenza di emozioni di disagio e insicurezza; o ancora per non confrontarsi con temi di cui non si è abituati a parlare.

Il film tratta argomenti che, per il loro contenuto altamente emotivo, spesso vengono scissi dalla propria vita e non possono assolutamente essere affrontati.

Il film narra della morte di un figlio adolescente; ma la morte in sé, come evento concreto, visibile, osservabile, è messa in secondo piano rispetto alle forti emozioni di perdita e separazione, che permeano tutta la vicenda, vissute dai genitori e dalla sorella. Ed è ovviamente un argomento che spaventa, mette a disagio, che non può essere lasciato entrare nel proprio mondo psichico andandone a turbare un precario ed apparente equilibrio.

Ma se si teme la morte, intesa però nel suo aspetto prettamente emotivo, e se si finge che sia un tema che non ci appartiene, perché allora vedere un film che possa invece proporci in maniera diretta e un po' prepotente una dimensione presente quotidianamente nella nostra vita?

Vengono continuamente proposti film in cui si vedono morti, sparatorie, uccisioni violente, che non creano particolari problemi agli spettatori, in quanto la morte, in questi casi, viene rappresentata solamente come corpo senza più vita, nel suo aspetto più asettico, scartando deliberatamente tutte le implicazioni emozionali che l'evento potrebbe provocare.

Non è tanto l'argomento della morte, allora, dal quale si sfugge, ma dalle forti emozioni che questo evoca.

È un film, secondo il mio parere, che si costruisce sulle emozioni dei personaggi; è la storia delle emozioni che si articolano in gesti ed azioni quotidiane. Un estratto di vita di una famiglia felice attraversata dall'immenso dolore della morte, tanto più ingiusta perché la persona che muore è un ragazzo di circa 15 anni.

I sentimenti sono talvolta espressi in modo violento, esplicito e molto diretto, attraverso il pianto, le grida, le azioni di sfogo, ed è come se l'immenso dolore che viene comunicato erompesse dalla finzione liberandosi oltre lo schermo, inondando l'animo dello spettatore, evocando un dolore noto, una sofferenza che accomuna tutti o quasi.

In altri momenti i sentimenti serpeggiano delicatamente in espressioni mimiche così intense che comunque toccano il cuore: occhi che soffrono, gesti che evocano ricordi di momenti felici trascorsi che non esistono più.

Tra i tentativi di dominare la sofferenza, piegandola all'esigenza di sopravvivere al dolore travolgente, compare la ricerca, da parte del protagonista, di creare con la mente un finale differente alla triste storia, di riparare il lutto prima che esso si compia, di restituire la vita al figlio, attraverso la propria onnipotenza fantasticata quanto irreale ed allucinata.

Tutto il film è la storia dell'elaborazione di un lutto, con le sue fasi di dolore insopportabile per la grande perdita, di non accettazione, di tentativi di riportare in vita il defunto attraverso attività mentali che non riguardano solo il ricordo, ma fantasie onnipotenti portate, come già detto, fino quasi al delirio, un delirio con il quale si può tornare indietro nel tempo e dare una direzione differente all'andamento degli eventi.

Ma dopo il rifiuto subentra la fase in cui il dolore diviene parte della vita, viene integrato come esperienza dolorosa di sé con la quale provare a convivere. E allora si percepisce un'ondata di dolcezza, una tristezza più elaborata, vissuta, sempre struggente, ma forse più ricca di significato.

Un significato che non comporta assolutamente rassegnazione, spiegazione, giustificazione: è solo accettazione attiva; è il potersi arrendere per lasciarsi travolgere da qualcosa che, dopo avere lacerato l'esistenza, porta ad una nuova dignità, ad una ricostruzione della propria vita che si aggiusta sul nuovo dolore, prendendo forse altre forme più evolute, perché quelle precedenti non sono più possibili.

Confesso che anche io avevo paura di questo film, pur volendo vederlo; non tanto per le emozioni che sarebbero sgorgate durante la proiezione (non provo vergogna a piangere), ma per quelle che una volta evocate sarebbero rimaste libere nella mia coscienza, turbandomi e invadendo i miei pensieri successivi; temendo il disagio conseguente la mia scarsa capacità di accettazione della morte. E invece la sensazione che rimane uscendo dalla sala cinematografica è al contrario, e stranamente, di leggerezza; come se riaffiorasse un sorriso dopo tanto dolore; come un dolce vento che scorre leggero riportando la calma.

Il film non è la storia di una morte, ma è la storia stessa che è l'elaborazione di una morte. Uscendo dal cinema ho sentito che qualcosa era accaduto anche dentro di me, mentre avveniva nella finzione cinematografica: una elaborazione interna protratta per tutta la durata della proiezione, al cui termine affiorava la sensazione che si può forse provare in occasione di una seduta psicoanalitica.

Ne risulta un percorso compiuto, e non la sensazione di qualcosa che rimane sospeso, in un liberarsi disordinato di sensazioni ingestibili; un dolore che viene invece condiviso, una esperienza di sofferenza in cui si viene sostenuti.

Il film è capace di aprire una gestalt ma poi di richiuderla, per non lasciarci disorientati e troppo sofferenti. Il film lascia anche un messaggio positivo: la sofferenza ed il dolore quando sono così grandi e incontenibili, dopo l'iniziale momento di smarrimento, disperazione fino quasi all'annichilimento, portano ad attingere alle nostre risorse più profonde ed importanti per dare un nuovo senso alla nostra vita sul versante creativo.
 
Federica Nasalli Rocca

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