- n. 1 - Gennaio 2011
- Architettura
Le quattro dimensioni dell'architettura per un progetto di sala per il commiato
Dove lo spazio si fa luogo
"È nei suoi atteggiamenti e nelle sue credenze di fronte alla morte che l’uomo esprime ciò che la vita ha di più fondamentale".
Egdar Morin
La Vita e la Morte: ciclo continuo, rapporto dialettico, movimento perpetuo in divenire. La morte come strumento necessario senza il quale diventa impossibile la crescita. “
Quell’unica cosa certa della vita di cui però non si può sapere nulla con certezza” (Sorel Kierkegard),quell’evento universale del quale tuttavia non si può fare esperienza, se non indiretta, diventa, nell’universo delle relazioni sociali, fenomeno culturale.
A contrappunto del carattere assoluto e totalitario della morte, e della struttura eminentemente individuale dell’evento, si erge un fatto comune a tutte le culture umane: l’individuo di fronte alla morte diventa collettività. Nel porre tutti davanti ad uno stesso esito, la morte ha stimolato risposte personali all’interno di linee di pensiero condivise: essa è stata per l’uomo di qualunque tempo e di qualunque cultura una via alla trascendenza e un motore di inesauribili questioni esistenziali alla ricerca di un fine, di uno scopo che spiegasse la singolare esistenza individuale sulla terra quanto quella dell’universo umano e della sua storia.
Come lama divisoria, crinale di cammini, la certezza della morte ha spinto tutti gli uomini a ricercare strumenti con i quali superare il dramma della separazione: la ritualizzazione della morte è stata dunque la risposta cultu(r)ale a questo bisogno universale. Al di là delle liturgie particolari dei culti o delle tradizioni, il rito si compone ovunque di elementi omologhi: parole, gesti e silenzi. I dolenti sono contemporaneamente attori e fruitori della struttura rituale, costruita per comunicare, per condividere e per consolare il dolore mediante dinamiche strutturate tendenti a promuovere una “simpatia” e una “compassione” tra gli astanti, nell’intento di sgretolare il carattere individuale del lutto e di aprirlo ad una dimensione sociale.
Nei Paesi occidentali per secoli la casa privata è stata il luogo del lutto e del catafalco, il primo ambito spaziale in cui il defunto e i suoi congiunti venivano accompagnati in quel lento, ma ineluttabile percorso di separazione che si conclude nel sepolcro. Il ciclo della vita si apriva e si chiudeva nello stesso luogo, nell’identico calore di un ambito domestico. L’avvento della società moderna, contenitore di molteplici identità e di differenti credenze, teatro di un processo di atomizzazione della società stessa (dalla comunità al singolo), con conseguente perdita di valori e di esperienze codificate in favore di una individualizzazione del trauma, ha portato alla crisi della ritualità domestica, incapace di raccogliere e di ospitare la pluralità di esigenze di un mondo nuovo che fa dell’igiene un mito ancor più che un requisito.
Le Sale per il Commiato costituiscono per l’architettura un tema nuovo, la proposta di “architetture della morte” per i viventi che trovano un pallido parallelo solo in taluni monumenti funebri a “camera”, con la rilevante differenza che mentre questi spazi assicuravano nei fatti la permanenza di quella “celeste corrispondenza d’amorosi sensi” nei riguardi dei particolari defunti ivi ricordati o sepolti, al contrario esse servono alla temporalità di un rito pubblico, che, pur differenziato per tanti, beneficia dello stesso spazio per tutti. Nel panorama degli spazi per le celebrazioni funebri sono quindi una novità: vi è spezzata tanto la corrispondenza biunivoca con il defunto, quanto quella con un solo sistema religioso o rituale. Non si tratta, insomma, né di monumenti né di chiese.
Si crea così uno spazio progettuale ibrido, dove la “mancanza” è il sentimento dominante. Le Sale per il Commiato rappresentano la risposta architettonica all’esigenza di un luogo nuovo, diverso, in cui credenti, non credenti e atei possano stringersi nell’ultimo saluto della persona cara scomparsa. Un luogo specifico, distinto dai luoghi e dagli spazi della quotidianità; un luogo neutro, privo di simboli legati ad una singola pratica religiosa, ma che possegga quei caratteri universali del linguaggio architettonico necessari per farne “il luogo del rito”, non solo contenitore, ma anche strumento del cordoglio.
Legare con l’architettura ciò che la morte divide: il protagonista assente di questo atto, in cui la morte è esperienza subita, e gli astanti, per i quali la morte è esperienza mancata. Si tratta di unire simbolicamente due momenti distinti e antitetici dello stesso divenire e di dare forma allo spazio come luogo della morte e della vita. Alla base di questo progetto di Sale per il Commiato vi è l’evidenza di questa compresenza contraddittoria, che in qualche modo vuole essere superata: unire in un unico organismo due concetti tanto opposti da essere reciprocamente necessari.
La morte come separazione, taglio, linea retta che divide lo spazio, lama severa che impone una svolta, l’angolo, dando forma e ritmo al movimento. In pianta la linea acquista consistenza, diventa setto murario, portante e continuo, sempre ortogonale al piano; elemento massivo che induce pesantezza alla membratura e la fa sprofondare. Su di esso interviene l’improvvisa flessione che genera angoli ottusi o acuti, mai retti, in una spezzata che costringe lo sguardo al movimento.
Due i livelli, sovrapposti, come le due funzioni che vi si svolgono: legato alla dimensione del rito quello inferiore, rivolto alla tanatoprassi quello superiore. Solo qui l’angolo retto ritorna a dare regolarità allo spazio, disegnando ambienti più consoni alla funzione per cui sono pensati. Due gli ingressi principali, separati, opposti per posizione e per concezione, entrambi monumentali. Due i percorsi, distinti, uno per il feretro e uno per il corteo, separati all’esterno come all’interno, con le camere come unico elemento di contatto. Se il percorso del feretro, legato a ragioni di carattere funzionale, è quasi schematico, più articolato risulta il percorso per i dolenti. La condizione di pena, di forte disagio emotivo che caratterizza chi si appresta a visitare questo luogo, ha fatto assumere alla quarta dimensione, il tempo, un ruolo centrale all’interno dell’intero progetto.
Il percorso come sequenza articolata di emozioni, successione di stati d’animo in crescendo verso un culmine, un vertice raggiunto il quale, lentamente, tornare indietro. Il ponte sul canale Navile diventa passaggio, un tramite verso l’alter che forse è morte, o forse vita diversa: un “oltre”. Quindi la grande rampa di accesso, lunghissima e asimmetrica, quasi un fuori scala. Generata da due setti murari incidenti che convogliano il flusso e lo sguardo. Per dare maggior carattere espressivo, maggiore forza simbolica a questo strumento di passaggio si è piegato il piano su cui esso poggia, donandogli una leggera pendenza. Ciò unisce ai benefici fisici legati alla gravità quelli percettivi legati ad un maggiore senso di protezione e di riservatezza che un luogo riparato suscita. Laddove si poteva pensare di individuare o di intravedere la convergenza, è posta la soglia, elemento di demarcazione e di confine, ma anche di passaggio. Ad essa corrisponde un cambiamento di registro: se le scelte formali permangono, quelle materiche e cromatiche interpretano il transito.
Se l’architettura è linguaggio, i materiali rivestono per un’opera la stessa importanza che le parole hanno in una frase. Se il tema è quello del commiato, allora la materia deve diventarne lo strumento espressivo. Se l’esterno, primo tramite a rapportarsi col dolente, era riflesso esteriore di un disagio interiore, l’interno ne stravolge le aspettative e, attraverso la via dello stupore, conferisce nuova solennità all’ambiente: il ricorso al cemento armato a vista, in getti, con il suo carattere cromatico, tattile e acustico conferisce quella unità materica ad un esterno che ne è privo dal punto di vista formale. La sua consistenza litoide, resa modulare dall’uso di cassaforme in alluminio, si affianca al carattere dell’acciaio corten in pannelli, paradosso estetico che unisce alla tonalità cromatica calda e naturale della sua superficie l’asprezza del metallo arrugginito, suo caratteristico modo di rispondere al fluire del tempo.
Varcata la soglia, l’esterno tanto freddo quanto buio lascia il posto ad un interno caldo e sorprendentemente luminoso. I pavimenti e gli arredi in doussie, legno dal carattere forte con venature tortuose e con una tonalità di colore dal bruno al rossastro, conferiscono energia agli ambienti e profondità agli spazi. L’uniformità cromatica delle pareti, con superfici in cemento bianco, lisce e uniformi, alternate ad altre grigie, modulari, faccia a vista, controbilancia le suggestioni scaturite dal contatto con il legno donando equilibrio agli ambienti.
Infine la luce, vero materiale da costruzione, che nel rapporto con forme e materia “dà la sensazione di spazi”o (Siegfried Giedion), rende l’architettura visibile e fruibile. È in essa che vengono assemblati i volumi, in quel “gioco sapiente, rigoroso e magnifico che è l’architettura” (Le Corbusier). È la luce a dare dinamicità agli ambienti e dimensione agli spazi. Se all’esterno essa contribuisce ad amplificare, con la sua negazione, quel senso di precario e di incompiuto che il cemento e l’acciaio esprimevano, all’interno essa diventa strumento espressivo, capace di conferire un carattere proprio ai diversi ambienti, nonostante questi siano il prodotto della stessa materia.
Le bucature, oltre a costituire strumento attraverso cui la luce pervade lo spazio, diventano elemento di connessione visiva tra esterno e interno. Il grande atrio su due volumi, elemento filtro attorno a cui ruotano tutti gli altri ambienti, comunica in verticale con il cielo, simbolo universale della trascendenza, attraverso quel “light well” già più volte sperimentato in architettura, dal Pantheon alla lanterna rinascimentale, dal Guggenheim Museum a New York di Frank Lloyd Wright fino all’ Indian Institute of Management di Louis Kahn ad Ahmedabad.
La cappella continua a rapportarsi con l’esterno, ma in una dimensione chiusa, privata. Le aperture rimandano ad ambienti ricavati per sottrazione, cortili interni che sono semplici vuoti architettonici. Nelle camere, invece, l’ambiente esterno è negato. La luce, sotto forma di lama sottile, entra attraverso una fenditura che taglia il soffitto, lo spezza, generando un doppio volume. È in questo luogo che avviene quella separazione fisica che il rito introduce e consola. Qui il percorso emozionale raggiunge il culmine, il vertice di quella parabola che l’ambiente, privo di aperture, costringe a interiorizzare. Al termine della funzione, il tragitto del dolente riprende il proprio corso attraverso luoghi già percorsi in senso opposto e ora, pertanto, diversi: l’atrio, la cappella e poi di nuovo la rampa, questa volta in salita, a braccia divergenti: emersione, ritorno alla vita. Piuttosto che duplicare lo spazio, si è dunque inteso diversificarlo secondo l’ordine del proprio svolgersi, ovvero secondo la percezione del verso in cui esso viene percorso: è ancora il tempo che entra nel progetto come la dimensione fondamentale a promuovere una interiorizzazione dell’evento attraverso un’opera di architettura.
Giuseppe Cannizzostudente Corso di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura,
Università degli Studi di Bologna