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Una lauda di Jacopone da Todi

La mia sepoltura: un ventre de lupo

Si narra che la conversione di Jacopone da Todi (1230 ca. - 1306) fu un evento repentino e spiritualmente, si potrebbe dire, violento. Certo è che un'oltranza radicale contrassegnò le scelte di quello che sarebbe divenuto il maggior poeta religioso nella letteratura italiana del Duecento, dalla vita raminga di mendicante, cui lui (un giurisperito benestante) si sottopose per un decennio, alla militanza nel settore più intransigente dell'ordine francescano e al conseguente duro scontro con Bonifacio VIII, che gli costò tre anni di carcere.
Di tale tensione estrema sono testimonianza soprattutto le Laude in volgare umbro, come quella di cui qui ci occuperemo, il cui ritornello così suona: O Segnor, per cortesia, / mandame la malsanìa [la lebbra]. Qui fra Jacopone sembra sentir gravare solo su di sé, in quanto uomo, il peso insostenibile della colpa di aver ucciso il proprio Creatore, e si augura una pena di totale, abietto annientamento, che assume la forma di un iperbolico, delirante elenco dei più orribili e repellenti malanni. Né vi sarà riscatto, per il corpo, dopo la morte. Anzi.
Nella sezione conclusiva della poesia è appunto la morte a venire in primo piano; il poeta se la augura, e dovrà essere dura: [...] a la scivirita (al momento della dipartita) / dura morte me se dia. Ma è soprattutto notevole ciò che l'oltranza che lo caratterizza detta a Jacopone riguardo alla sorte del suo corpo dopo il decesso: Aleggome en sepoltura / un ventre de lupo en voratura, / e l'arliquie en cacatura / en espineta e rogarla (scelgo per me come sepoltura il ventre di un lupo che mi abbia divorato, e le mie reliquie saranno ciò che la bestia avrà defecato in mezzo alle spine ed ai rovi).
È chiaro quello che Jacopone vuol dire, anche a scanso di un possibile equivoco da parte del lettore: l'esistenza rovinosamente dolorosa che si augura non è certo presuntuosamente intesa ad acquisire qualche merito, meno che mai un'eventuale fama o destino di santità. La parola chiave è indubbiamente arliquie (reliquie, resti), sottoposta qui ad un amaro stravolgimento: a differenza di quelle dei santi, venerate sugli altari, abbiamo visto dove finiranno le reliquie di fra Jacopone... Lo confermano le strofe successive, che proseguono implicitamente il paragone con ciò che accadrà ai santi dopo la morte: essi compiono miracoli, vengono rispettosamente nominati e piamente invocati; al contrario li miracul' po' la morte: / chi ce viene aia le scorte / e le vessazione forte / con terribel fantasia (ecco i miei miracoli dopo la morte: chi viene [alla mia tomba, cioè in mezzo alle sterpaglie] sia vessato da spiriti malvagi [le scorte] e da visioni terribili); ed inoltre Onn'om che m'ode mentovare / Sì se deia stupefare / E co la croce signare, / che rio scuntro no i sia en via (chiunque sente fare il mio nome inorridisca e faccia il segno della croce, per non fare cattivi incontri sul suo cammino [i fantasmi e gli spiriti di cui sopra]).
Quindi una sterpaglia come tomba; feci al posto delle reliquie; una fama dopo la morte di jettatore - si direbbe oggi - invece del ricordo di un sant'uomo: ecco un esempio di quella che sopra abbiamo chiamato l'oltranza di Jacopone da Todi. Un eccesso che fa tutt'uno con la formidabile potenza espressiva di un poeta che ha ben pochi paragoni nell'intero medioevo volgare italiano. Un creatore di linguaggio per certi aspetti veramente unico, come i posteri gli hanno ampiamente riconosciuto: dunque la sorte di fra Jacopone dopo la morte non è stata in questo senso davvero quella che egli riteneva di meritare...
 
Franco Bergamasco

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