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Se ci sentiamo "unici" non possiamo morire

La famosa scrittrice americana Susan Sontag pensava, come molti di noi, di essere una persona speciale, unica e irripetibile. È per questo che quando si è ammalata di un cancro al seno per il quale l'avevano data quasi per spacciata, ha lottato contro la malattia ed è riuscita a guarire. Le riflessioni che ne ha tratto sono diventate un libro famoso (Malattia come Metafora, Einaudi). Quando poi, anni dopo, Susan Sontag ha avuto un altro cancro (all'utero, credo), ha fatto come la prima volta e di nuovo è riuscita a guarire. Ma purtroppo, ad un certo punto della vita, tutti siamo destinati ad ammalarci di qualcosa di cui non guariremo e che ci porterà alla morte. E così è stato anche per la grande scrittrice americana: all'età di settantacinque anni si è ammalata di leucemia e, pur assumendo l'atteggiamento di sempre, non è riuscita a guarire ed è morta. Il figlio della scrittrice ha raccontato nei particolari questa vicenda della quale colpisce un episodio a mio avviso molto significativo. Mi riferisco a quando Susan Sontag si sente dire da uno dei medici a cui si era rivolta per curarsi la leucemia che non c'è molto da fare per guarire, ma che si può fare molto per avere, nonostante tutto, una buona qualità di vita. È a questo punto che la scrittrice si arrabbia col medico dicendogli con una certa indignazione che non gliene importa nulla della qualità della vita perché vuole conservarla, la vita, perché è una vita speciale e unica.

Ecco: se ci sentiamo unici non possiamo sopportare l'idea che moriremo!

Non abbiamo allora che due alternative: o cercare di non pensarci ("Il saggio pensa alla vita, non alla morte", dice Spinoza), o aprirci vie di sopravvivenza oltre la vita (credendo in qualche "aldilà", scoprendo di essere parte di ciò che non muore). Se le due alternative funzionano viviamo come se non dovessimo morire mai, o perché non pensiamo alla morte o perché la morte non ci riguarda, visto che vivremo anche oltre la vita. Se, invece, non funzionano, il pensiero della morte ci ossessiona o siamo angosciati dall'angoscia del nulla che ci attende dopo la vita.

Ma siamo veramente unici, così speciali da non poter sopportare di non esserci più?

Dal punto di vista biologico, come esseri viventi, non siamo affatto speciali, dato che la nostra vita è determinata dal fatto di appartenere ad una certa specie animale, e in quanto individui non siamo altro che "variazioni" su uno stesso tema, quello della specie o del genere a cui apparteniamo. In questa ottica dovremmo essere educati a sentirci "normali" più che "speciali", esempi ripetibili di esseri viventi che hanno un ciclo vitale assegnato dal patrimonio genetico e dal rapporto con l'ambiente. Quelli di noi che si sentono "normali" esseri biologici possono concepire la morte come non solo inevitabile ma anche naturale e utile per la sopravvivenza e per l'evoluzione della specie e quindi per i suoi individui, cioè per noi stessi.

Finiremo così per accettare la morte vivendo nella piena consapevolezza di essa, e ci preoccuperemo di migliorare la vita facendo sì che sia di buona qualità e che duri un intero ciclo vitale, in modo da consentirci di "goderla" il giusto realizzandone le potenzialità (dalla procreazione al contributo per le generazioni future). Sicché quando dovremo morire sarà giusto morire se la morte non sarà prematura e se non avverrà attraversando una lunga agonia. Sono sempre più numerosi quelli che dicono: "non ho paura di morire, ho paura di soffrire". Il che significa: "voglio vivere il più a lungo possibile in stato di benessere e quando il ciclo vitale sarà esaurito e vivrei male meglio morire, purché in modo dolce, cioè istantaneo e indolore".

Meglio allora non sentirsi unici ma normali, per poter sopportare la consapevolezza di dover morire e per preoccuparsi solo di vivere bene finché sarà possibile, e poi morire in modo da conservare il massimo benessere? È quello che sembra proporci la nostra cultura tentando in tutti i modi di omologarci ad uno standard di normalità volto ad "animalizzare" e a spersonalizzare sempre più la nostra vita.

Se esistesse solo quest'unica alternativa, l'essere unici (cioè l'essere ossessionati dall'idea della morte od angosciati dal nulla del dopo), forse sarebbe preferibile adattarci ad essere normali esseri biologici. Perderemmo, perdendo l'unicità, qualcosa di prezioso: l'impossibilità di essere confrontati gli uni agli altri su cui si basa il valore assoluto di ciascuno di noi, valore assoluto che, a sua volta, è alla base dell'illegittimità della strumentalizzazione e dello sfruttamento di alcuni da parte di altri. Forse preferiremmo il vantaggio sulla morte che l'animale ha sull'uomo grazie alla sua maggiore identificazione dell'individuo con la specie. A meno che non ci sia un'altra alternativa, grazie alla quale si possa sopportare di dover morire senza rinunciare ad essere unici.

Una siffatta alternativa si scorge allorché si incontra qualcuno in grado di sopportare la morte non per la sua positività biologica, ma per la possibilità di esserne difesi da chi resta. C'è un esempio della nostra attualità che può illustrare questa prospettiva: il testamento biologico. Allorché qualcuno teme di non riuscire a morire nel modo desiderato, cioè non oltre il momento in cui le condizioni di vita non sarebbero più accettabili per lui, vorrebbe poter decidere "ora per il futuro" e vorrebbe che la sua volontà fosse "sovrana", cioè rispettata da chi resta. Vi è in questa situazione un paradosso di cui pochi si avvedono: qualcuno che vorrebbe morire non appena la qualità della vita diventi inaccettabile perché si identifica come un "normale" essere biologico, nel prevederne un ostacolo fa un testamento attraverso il quale cerca di "personalizzare" la propria morte richiedendo agli altri che lo considerino "unico", cioè che considerino il suo valore assoluto e la sua volontà sovrana. Si tratta, tuttavia, di un paradosso che mette in luce come ogni dimensione dell'umano (in questo caso la dimensione biologica) richiama, incontrando il proprio limite, altre dimensioni umane (in questo caso la dimensione personale). A parte questo, il testamento biologico è affidato per la sua realizzazione a chi resta e chi resta può essere d'accordo con esso e rispettarlo o in disaccordo e non rispettarlo. Bisognerebbe allora (e c'è chi lo chiede) obbligare, con una apposita legge, chi resta a rispettare le volontà di chi non c'è più.

Supponiamo ora che qualcuno dica: "io mi affido agli altri nel morire, facciano quello che ritengono sia meglio per me". Ecco la terza alternativa: sopportare il morire significa affidarsi agli altri che restano, come se li si nominasse propri sostituti senza voler dire loro come ci debbono sostituire. L'essere umano è capace anche di questo: anche quando deve morire percepisce che la sua morte non riguarda solo lui, ma riguarda anche chi resta, e sopporta di morire perché chi resta rimane anche per chi non c'è più. Ogni vivente è figlio di qualcuno e ha perso qualcuno: cosicché gli è impossibile vivere solo per sé e vivrà anche per i morti. Chi muore, allora, può morire affidando la propria vita a chi resta: o lasciandogli detto cosa vorrebbe che fosse la sua vita attraverso l'altro dopo la morte, o non dicendoglielo. Ma come farà in tal modo a restare unico chi muore? Non somiglia l'affidarsi agli altri nel morire all'affidarsi alla meravigliosa vicenda del dna e al ciclo della vita che continuano dopo la vita individuale e che caratterizzano la concezione biologica dell'esistenza umana? Vivendo attraverso chi lo "rappresenta" in vita, attraverso la vita di chi resta, chi muore cade nell'anonimato, così come quando le molecole organiche del cadavere rientrano nel ciclo dell'azoto o il patrimonio genetico individuale si mescola con quello di un altro individuo nella procreazione? O, peggio ancora, chi muore è destinato a "cadere nelle mani degli altri", come diceva Sartre, cioè ad essere tradito nella sua unicità perché frainteso?

Non necessariamente. Perché chi resta può, per tutta la vita, continuare a desiderare di sostituirsi all'altro marcandone in tal modo la differenza e l'unicità in quanto il rapporto tra l'io e l'altro non è nell'uomo: né solo un rapporto oggettivante di strumentalizzazione (come è nella vita biologica anche razionalmente evoluta), né solo un rapporto soggettivante di assimilazione dell'altro all'io. Il rapporto tra l'io e l'altro può essere nell'uomo anche un rapporto di "costituzione e implicazione" attraverso la vulnerabilità. Significa che l'altro non solo lo prendo per soddisfare i bisogni, non solo me lo porto dentro per farlo diventare parte di me, ma posso anche avvicinarmi a lui ed esserne "colpito" (e colpirlo) senza ridurlo a cosa, né assimilarlo a me. Ora l'altro è con me restando sé ed è in me senza esser me, ora io sono in me e per me quello che sono "per" l'altro. E così, quando sarò morto, l'altro non potrà ridurmi a cosa, né potrà ridurmi al suo io, io non sarò più in me e per me ma ci sarò per l'altro, per l'altro in quanto altri, cioè in quanto me!

Se sono "unico per me", se mi sento unico, non posso sopportare di morire; se sono normale posso sopportare di morire, ma smetto di essere unico; solo se sono "unico per altri" posso sopportare di morire senza cessare di essere unico.

 
Francesco Campione

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