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Quando la scrittura allevia il dolore

Il lutto è un processo naturale e dinamico che può essere facilitato attraverso lo strumento della scrittura autobiografica.

La perdita di una persona cara è sempre un’esperienza perturbante, che sconvolge l’equilibrio di coloro che restano in vita: familiari, amici, colleghi.
All’improvviso diventa difficile e doloroso gestire il proprio mondo emotivo, tutto il caos di emozioni contrastanti che ribolle dentro e preme con violenza per uscire, spesso senza trovare una strada. Incredulità, rabbia, dolore, nostalgia… sono soltanto alcune delle emozioni che una persona in lutto può ritrovarsi a provare anche contemporaneamente. Questo caleidoscopio emotivo è ciò che finisce per destrutturare la vita quotidiana di chi sta vivendo un lutto e questa sensazione di instabilità, di confusione, genera a sua volta sofferenza e disagio.

Il lutto, nel momento in cui viene a mancare una figura importante, a cui siamo fortemente legati, è un processo naturale e dinamico che ha una sua evoluzione, ma può essere facilitato attraverso l’utilizzo di uno strumento soltanto apparentemente semplice: la scrittura autobiografica. Quando il tempo è reso come sospeso, congelato e inamovibile dalla sofferenza ancora inaccettabile, la narrazione sotto forma di diario può essere quella strategia efficace che “rimette in moto” la quotidianità e il suo presente, permettendo all’individuo in lutto di entrare in contatto con il proprio mondo interiore, mettendosi in ascolto anche del più lieve cambiamento che sperimenta giorno dopo giorno (Mencacci et al., 2015). Se è noto il valore della lettura, non soltanto come prezioso veicolo di apprendimento e conoscenza, ma anche come strumento di approfondimento della conoscenza di sé e di assunzione di punti di vista alternativi sul mondo, nella società occidentale è, invece, andato perso il gusto e così la tradizione, delle narrazioni orali, che in passato tessevano il significato dei grandi eventi dell’esistenza: nascita, amore, malattia e morte.

La narrazione autobiografica, soprattutto durante un periodo di grande sofferenza psicologica e
spirituale come quello del lutto, lentamente restituisce senso all’esistenza che sembra di colpo averne perduto uno, riannoda i ricordi che si sono confusi, intricati, sparpagliati come tessere di un puzzle che qualcuno ha scombinato; tesse nuovamente la trama di una vita che si è come interrotta, spezzata. La scrittura di un diario personale permette all’individuo di districare la confusione in cui si sta dibattendo, riportando ordine laddove c’è caos e instabilità. Seguendo Mencacci e colleghe (2015, p. 208): «… quella diaristica appare la forma più adeguata di scrittura […] immediata, minimale, per tutti coloro che, dall’adulto al bambino, vivono il lutto». La narrazione autobiografica è, dunque, una forma espressiva per esplicitare il proprio dolore e la propria rabbia, che può essere utilizzata a ogni età e che sarà tanto più personale e ricca quanto più l’individuo si sentirà coinvolto nel processo di dare voce alle proprie emozioni attraverso la parola scritta.
Perché proprio la “parola scritta” può sortire quest’effetto catartico di liberazione dal fardello del dolore? Innanzitutto, perché, scrivendo, si fissano i ricordi, le emozioni, le sensazioni e i pensieri, che diventano incancellabili, qualcosa su cui possiamo tornare a posare lo sguardo tutte le volte che lo desideriamo o che ne sentiamo il bisogno. La pagina scritta rimane lì, pronta per essere di nuovo letta (a sé stessi o a qualcun altro, in silenzio o ad alta voce, in solitudine o in gruppo), elaborata, ripensata. In secondo luogo, perché l’atto dello scrivere è un atto mediato, più lento del discorso orale, che permette un’elaborazione più approfondita di quanto desideriamo esprimere, anche quando la scrittura è di getto, furiosa, spezzata dal turbinare delle emozioni che si susseguono. Avviene sempre una scelta dei termini che si vogliono utilizzare per rappresentare quello che proviamo. La scrittura è una forma di comunicazione molto efficace non soltanto per il contenuto che veicola, ma anche per il modo in cui lo fa: come, infatti, fanno notare Mencacci e colleghe (2015), persone diverse vivono il lutto in maniera diversa e diversi saranno i loro stili di scrittura: si potranno trovare linguaggi concreti, telegrafici, sintetici, dettagliati, astratti o metaforici ecc. Anche il tono dei loro diari sarà diverso, ma ognuno rispecchierà il mondo emotivo di colui che l’ha scritto e veicolerà il suo messaggio.

La narrazione autobiografica, così come la lettura consapevole, è una forma di libroterapia: è una terapia non farmacologica, una terapia della parola, che permette all’individuo che la sperimenta di incrementare la propria autoconsapevolezza, di guardare con occhi nuovi la propria realtà, stabilizzando la percezione di se stessi anche in un momento di grandi cambiamenti (di ruolo, d’immagine ecc.) come può essere quello che segue la morte di una persona cara. La scrittura di sé rende più consapevoli delle proprie, contraddittorie emozioni e facilita il cambiamento (Mencacci et al., 2015). In qualche modo, tenere un diario, fermare su carta i propri pensieri, anche sconnessi, anche slegati e appuntati di getto, apre un dialogo con se stessi, costringe l’individuo ad affrontare ciò che sta provando, a esprimerlo con sincerità, ma soprattutto permette di sostare nella propria sofferenza in solitudine, mettendosi realmente in ascolto di se stessi per poi trovare le parole che dipingano il quadro del proprio mondo emotivo, restituendogli senso e significato. Scrivere di sé, degli eventi che ci accadono e delle emozioni che risvegliano, è, dunque, un lavoro di introspezione che in caso di lutto non può che essere benefico.
Linda Savelli:dottoressa in tecniche psicologiche per i servizi alla persona e alla comunità e filosofa.
Bibliografia di riferimento: Mencacci, E., Galiazzo, A. & Lovaglio, R. (2015). Dalla malattia al lutto - buone prassi per l’accompagnamento alla perdita. Milano: Casa Editrice Ambrosiana.
 
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