- n. 4 - Aprile 2002
- Psicologia
LA RITUALITÀ FUNERARIA
Uno dei temi del dibattito svoltosi a TANEXPO 2002 in occasione della presentazione del prototipo italiano di Casa Funeraria mi sembra meritevole di essere ripreso in modo più esteso.
Mi riferisco al tema della ritualità funeraria sul quale tutti gli intervenuti si sono soffermati, mettendone così in evidenza la centralità. Esiste in proposito un diffuso senso comune secondo il quale l'Occidente vive una grave crisi della ritualità in generale, e di quella funeraria in particolare.
Su questo punto l'accordo è unanime, ed è proprio da qui che si deve partire per sostenere che questa crisi deve essere superata tramite nuove ritualità, visto che i vecchi riti avevano un valore terapeutico, o di aiuto in generale, per risolvere quella che De Martino ha definito la "crisi del cordoglio".
Ecco allora che tutte le volte che si progetta un nuovo servizio o una nuova istituzione ci si propone di farne un contenitore di nuove ritualità, in sostituzione di quelle ormai cadute in disuso o ritenute insoddisfacenti.
Accade anche per la Casa Funeraria: infatti si tende a ritenere che in essa debbano essere presenti spazi di ritualità (sale del commiato) specificamente dedicati alle esigenze rituali che si presentano al momento del funerale.
Purtroppo, però, l'unica innovazione che si riesce ad immaginare consiste nel prevedere una pluralità dei vecchi rituali in crisi. Col risultato di sostenere che basta realizzare spazi di ritualità (purché pluralistici) per venire incontro alle esigenze di ritualità.
Il che equivale a ritenere che ciò che serve è una qualsiasi ritualità, non a senso unico (ad esempio, che non sia prevalentemente cattolica o prevalentemente laica). Come a voler significare che la risposta alla crisi della ritualità può essere la restaurazione di tutte le ritualità.
In realtà nella nostra cultura esiste una alternativa che si tende a trascurare e che consiste nella possibilità di rinunciare alla ritualità stessa, come dimostrano le tendenze riscontrabili nei comportamenti collettivi: sempre più gente diserta i funerali e sempre più gente mostra insofferenza per qualsiasi rituale!
Per tener conto di questa alternativa bisognerebbe, nel progettare la Casa Funeraria, considerare gli spazi rituali (la sala del commiato) come spazi a disposizione della creatività sociale, cioè spazi talmente elastici da potervi prevedere l'attuazione, oltre che dei rituali tradizionali, di rituali totalmente nuovi e improvvisati, così come di "eventi" che esprimano il rifiuto della ritualità o di "eventi" irripetibili, cioè non ritualizzabili perché legati alla unicità ed alla non ripetibilità delle biografie dei particolari morti e dei particolari dolenti che usano gli spazi.
I dolenti potrebbero, ad esempio, aver bisogno di un luogo in cui scambiarsi informazioni sui compiti che chi è morto ha loro affidato. E potrebbero farlo da soli o con l'aiuto di qualche esperto psicopompo, cosa che trasformerebbe la cosiddetta sala del commiato in una sala di psicoterapia di gruppo in cui rappresentare l'inizio di una elaborazione collettiva del lutto.
In sintesi, se la Casa Funeraria vuole essere veramente personalizzata deve essere progettata in modo da consentire a chi la usa di esprimervi sia le esigenze rituali (di vecchi e nuovi rituali), sia le esigenze, oggi molto presenti nella nostra cultura ma ancora non ben codificate, di andare oltre la ritualità collettiva, verso modalità di elaborazione collettiva del lutto fondate su di una socialità che supera la crisi del lutto, non perché paga ai morti l'obolo che la ritualità consente di pagare, trasformandoli così in antenati ed impedendo che ritornino turbando i sonni dei vivi, ma perché fa loro giustizia continuando la loro vita, interrompendo, cioè, la frattura di sempre tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti.
Significa, in termini più semplici, che nella Casa Funeraria dovrebbe essere possibile, oltre che stabilire coi morti il rapporto di scambio che la ritualità consente (il rituale è uno scambio simbolico nel quale chi ha paura dei morti paga loro un obolo di pianto e di sofferenza, se non di costosa pompa, in cambio del quale il morto accetta di non tornare più nella vita diventando antenato e trapassato), anche il rapporto di pacificazione reso possibile dall'accettare, da parte dei vivi, la responsabilità di far vivere i morti continuando ad amarli ed a realizzare i compiti che hanno loro affidato morendo.
E ciò può essere fatto prevedendo nella Casa Funeraria un percorso di personalizzazione del commiato che, nelle forme più imprevedibili, possa cominciare a chiarificare a chi resta cosa ha lasciato detto chi non c'è più, consentendo di impegnarsi ad assumersene la responsabilità.
Francesco Campione