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Il Rimini Gurkha War Cemetery

La storia di questo cimitero è legata indissolubilmente a quella della liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Il nostro territorio è disseminato di cimiteri simili a questo, a testimonianza di quanto duro e tragicamente doloroso sia stato affrancare il Paese dall’oppressione e dalla guerra. Ogni italiano deve ad ognuno degli oltre 42.000 caduti stranieri, sommati naturalmente a quelli italiani, militari e civili, la libertà e la pace di cui ha potuto godere dal 1945 in avanti.
Il Rimini Gurkha War Cemetery, situato lungo la superstrada che da Rimini conduce a San Marino, è, dunque, solo uno di questi luoghi della memoria.
L’ingresso del cimitero, che custodisce le spoglie di 790 Royal Gurkha Riflemen, conduce prima in una sorta di anticamera; sulla parete destra una stele incisa narra la storia e i movimenti delle truppe alleate che, sbarcando a Reggio Calabria, Taranto e Salerno fra il 3 ed il 9 settembre del 1943, risalirono la Penisola e, con la piena e costante collaborazione del movimento partigiano e di alcuni reparti dell’esercito, riuscirono a restituire l’Italia agli italiani, costringendo i tedeschi al completo ritiro. Sulla parete sinistra invece, all’interno di una teca a disposizione dei visitatori, sono contenuti alcuni documenti che spiegano chi siano gli uomini sepolti e chi abbia la responsabilità della custodia e del mantenimento del cimitero.
Si apprende così che il Rimini Gurkha War Cemetery è affidato alla “Commonwealth War Graves Commission” (Commissione per le Onoranze ai Caduti in Guerra del Commonwealth), istituita durante la prima Guerra mondiale e da allora responsabile delle onoranze funebri di tutti i caduti del Commonwealth nel mondo secondo il principio in base al quale “... ognuno dei caduti sia commemorato individualmente per nome, o sulla lapide che si erge sulla tomba oppure con una iscrizione su un monumento; che le lapidi siano uniformi e che non vi sia alcuna distinzione per grado militare o rango, per razza o per credo”.
Nella stessa teca è presente anche un quaderno in cui tante persone hanno lasciato un proprio ricordo: parole di affetto e di gratitudine rivolte ai Gurkha che da tanti anni riposano a Rimini, segno che non tutti hanno dimenticato e che anche chi è venuto al mondo dopo di loro ha appreso delle loro gesta e ne ha compreso il valore.
Proseguendo la visita ed entrando nel cimitero vero e proprio, ci si trova in un grande prato, verdissimo e dominato dalla razionalità di forme geometriche perfette.
Colpisce il senso di pace che vi si respira: tutto è governato dal silenzio ed ogni cosa, ogni lapide, ogni singolo fiore, ogni filo d’erba, si erge con compostezza, con pulizia, con ordine. Il vento sussurra alle orecchie dei visitatori, suggerendo loro di camminare lentamente tra le candide tombe, senza parlare, per non disturbare il riposo dei 618 giovani soldati seppelliti qui, ai quali si aggiungono i resti cremati di altri 172 corpi i cui nomi si possono leggere incisi sul monumento funebre edificato al centro del cimitero stesso, tutti morti tra il 1939 ed il 1945 per liberare l’Italia dalle numerose e spietate truppe tedesche. Giovani soldati, fucilieri (“rifleman”, si legge sulle loro lapidi) di età compresa per lo più tra i 18 e i 26 anni, ragazzi provenienti da molto lontano, dalle Indie, ed arruolati nelle truppe del Commonwealth, che hanno perso la vita in Italia schierati con le truppe alleate.
I Gurkha erano per l’esattezza soldati nepalesi, arruolati nell’esercito britannico e noti per le loro doti di valorosi combattenti.
Ma cosa accadde esattamente nel nostro Paese? Perché fu necessaria la presenza di interi eserciti stranieri per porre fine alla Seconda Guerra Mondiale? Bisogna tornare con la memoria all’8 settembre 1943, giorno in cui fu letto alla radio il proclama che annunciava la resa dell’Italia agli alleati, coloro che fino a quel momento erano stati il nemico da combattere in nome di Mussolini e di Hitler per l’affermazione dell’Italia fascista e della Germania nazista. Alla vigilia dell’8 settembre l’Italia era un Paese ormai ridotto alla miseria; negli ultimi anni ogni risorsa era stata impiegata per finanziare la guerra, una guerra aggressiva e assurda, che condusse migliaia di soldati italiani a seminare morte e distruzione nei Balcani e nell’Africa del Nord, per non parlare della terribile campagna di Russia dove l’esercito italiano fu alla fine quasi completamente distrutto dalle truppe sovietiche.
Quando apparve chiaro che Mussolini era finito e che l’Italia non poteva fare altro che arrendersi e passare dalla parte degli alleati (americani, francesi, inglesi, ...), neppure allora le redini furono prese in mano da persone accorte: il re Vittorio Emanuele III di Savoia fuggì in gran segreto con tutta la sua corte e col maresciallo Pietro Badoglio, fino a quel momento a capo del Governo, senza preoccuparsi delle conseguenze della resa per le truppe italiane dislocate all’estero accanto a quelle tedesche e senza predisporre un piano che potesse in qualche modo arginare la reazione tedesca all’interno del territorio italiano. Da un giorno all’altro l’Italia divenne nemica dei tedeschi e, dopo anni di stretta collaborazione, si schierò dall’altra parte del fronte: possibile non prevedere il pericolo di avere sul proprio territorio migliaia di soldati divenuti improvvisamente nemici? Come non immaginare la loro reazione? In pratica il nostro Paese si ritrovò già invaso da un esercito forte, ben equipaggiato e molto motivato a reagire al tradimento patito.
Entrarono così in gioco le forze alleate. Fu progettata a tavolino la penetrazione capillare di alcune armate con lo scopo di liberare l’Italia dalla presenza militare tedesca. E fu proprio a questo punto della storia che molti dei giovani Gurkha che da oltre 60 anni riposano a Rimini furono inviati a combattere in un Paese lontanissimo dal loro; si chiamava Italia e all’Italia donarono il loro coraggio, i loro sogni, la loro stessa vita.
Il 14 agosto 2009 qualcuno sul quaderno della memoria ha scritto queste poche parole: “Il vostro sacrificio è la nostra libertà. Grazie!”.
 
Daniela Argiropulos

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