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Sfida alla morte: la Silicon Valley punta all’immortalità

Il decadimento fisico e l’invecchiamento visti come una malattia: ecco la sfida al declino degli scienziati americani.

La morte come “errore”, come un nemico da sconfiggere, come qualcosa che non si può e non si deve subire. è questo il pensiero di alcuni magnati e imprenditori della Silicon Valley che stanno sovvenzionando scienziati e medici per uno studio sul modo per eludere l’unico appuntamento certo nella vita di ogni essere vivente: la morte.

La ricerca dell’immortalità è un argomento antico come l’umanità. Da sempre l’essere umano, da quando ha iniziato ad avere coscienza del proprio essere, ha cercato di fuggire il più a lungo possibile da quel momento infausto tanto temuto; da sempre ha cercato un modo più o meno tangibile per raggiungere una sorta di immortalità: chi assicurandosi una nutrita discendenza e tramandando a figli e nipoti la propria storia e quella della propria famiglia, chi lasciando opere artistiche o scritti, musiche o dipinti che hanno segnato la storia dell’umanità e hanno consacrato all’immortalità, appunto, i loro autori.

Che lo si voglia fare cercando di lasciare un pezzo di sé attraverso i propri figli o che lo si voglia fare lasciando un segno nella storia dell’umanità tramite il proprio lavoro, tutti cerchiamo in qualche modo di non essere dimenticati e di continuare a “vivere”. Ma che succede se un gruppo di ricchi imprenditori finanzia un progetto per lo studio dell’immortalità vera, quella dove idealmente corpo e mente vivono per sempre?

Migliorare la vita o fermare l’invecchiamento

Molti personaggi di spicco del settore imprenditoriale mondiale finanziano studi o hanno costituito enti
per la ricerca sull’immortalità. Qualcuno con l’intento di prolungare e migliorare la vita, qualcun altro per sconfiggere malattie ad oggi letali, altri infine per scoprire il segreto dell’eterna giovinezza.

Peter Thiel, cofondatore di Paypal, ha dichiarato che “la maggior disuguaglianza umana è tra chi è vivo e chi non lo è più” e che “la morte è un problema da risolvere”. Per questo motivo da tempo finanzia ricerche contro l’invecchiamento. Ma Thiel non è il solo a temere così tanto la morte da considerarla un problema. Il Ceo di Google Ventures Bill Maris, ad esempio, ha creato Celico, un progetto ambizioso in cui gli scienziati studiano strategie e cure per allungare la vita. L’idea nacque a Maris dopo l’evento devastante della morte del padre a causa di un tumore al cervello e fu talmente entusiasta di presentarla ai colleghi che convinse il Ceo Larry Page e il Presidente Sergey Brin, forse attirati dalla previsione di guadagni milionari, a entrare nella società. Altri magnati dell’industria, come il fondatore di Oracle Larry Ellison, sono sostenitori di gruppi di studio per migliorare e allungare la vita e le indagini in merito sono tante e svariate.

Tra gli studiosi impegnati nella ricerca dell’immortalità il gerontologo Aubrey De Grey e lo scienziato David Sinclair hanno da poco annunciato di avere fatto grandi passi nelle loro ricerche. Ma può la morte essere considerata come una “malattia”? Molti degli scienziati coinvolti considerano il corpo umano come una “macchina” da riparare o revisionare, ma come può il corpo umano, fatto di tessuti, liquidi e materiali altamente degradabili e soggetti all’usura, rimanere giovane, attivo e perfettamente performante per sempre? Tra le numerose teorie messe in campo per contrastare l’invecchiamento si è parlato di metodi più o meno realistici tra cui il ringiovanimento dall’interno per mezzo di trasfusioni di sangue da soggetti giovani, “pezzi” di ricambio per la sostituzione degli arti danneggiati e di ringiovanimento cellulare.

Leggendo queste ipotesi si capisce facilmente come ognuna di queste idee sia stata quasi completamente accantonata. Dopotutto il corpo umano non è una macchina e il pensiero di cambiare il sangue di un essere umano come se fosse un cambio d’olio per un’auto al fine di prolungarne l’efficienza (e quindi non a causa di malattie congenite che richiedono questo tipo di intervento) lascia perplessi. L’ipotesi di cambiare i pezzi “guasti” con altri nuovi poi, che forse nasce dalla pratica del trapianto che, in sé, è un metodo molto efficace nel caso di malattie e patologie dove sia necessaria la sostituzione di un organo, risulta ancora più disturbante. Pensare di attuarla al corpo nella sua interezza per il motivo di “mantenerlo giovane” riporta alla mente scenari più simili al Dottor Frankenstein di Mary Shelley piuttosto che allo studio di un team di scienziati.

Memoria traslata e vita digitale

Mentre si cerca un modo possibile per mantenere il corpo umano giovane e in salute, alcuni scienziati sono andati oltre entrando in quel limbo dove la linea che separa la realtà dalla fantascienza, quella popolata da robot e macchine che volano, diventa sottilissima. Una delle ipotesi più gettonate per raggiungere l’immortalità è infatti quella di “trasferire” la memoria, i ricordi, le esperienze dell’essere umano (il cervello insomma) in un computer e continuare a “vivere” in eterno all’interno di una macchina. Chi ha tra i 40 e i 50 anni ricorderà il manga giapponese Jeeg Robot d’Acciaio di Go Nagai trasmesso in TV nel 1979 dove il professor Shiba, padre del protagonista Hiroshi, viene ucciso dai mostri Haniwa e la sua conoscenza viene riversata in un enorme computer dal quale lui parla al figlio e agli scienziati della base antiatomica. L’idea di traferire il cervello in un computer e poter continuare a vivere tramite un avatar è sostanzialmente la stessa.

Nel 1968 Stanley Kubrick portò sullo schermo il colossal 2001 Odissea nello spazio, film diviso in quattro parti distinte e interconnesse tra loro con il tema del “monolito”. In una di queste sezioni, i protagonisti sono due astronauti che si trovano a bordo di un’astronave in missione nello spazio. Con loro, tre scienziati ibernati e Hal, il computer dall’intelligenza superiore che ha il controllo dell’operazione. Quello che doveva essere il più grande aiuto dei due uomini diventa però il nemico più reale: il calcolatore sbaglia una previsione e quando i due astronauti decidono di disattivarlo, uccide quasi tutto l’equipaggio. L’umanizzazione di Hal è ancora più evidente quando l’unico superstite riesce a spegnerlo e la voce di Hal, ora sicura, ora impaurita, dice di “sentirsi morire”.

Il tema dei computer e delle macchine umanizzate è stato trattato da numerosi altri film di successo, tra cui il più noto è probabilmente Blade Runner (1982) di Ridley Scott. Qui non si parla di computer programmati con un’intelligenza che riproduce quella umana, ma di vere e proprie “macchine” dall’aspetto di uomini e donne: i replicanti. Nella Los Angeles distopica del film, gli androidi sintetici vengono creati con un intelletto e una forza fisica maggiori rispetto a quelli degli umani per poter svolgere lavori difficili e pesanti al loro posto. La durata di vita massima dei replicanti è di quattro anni e il loro scopo è alleviare le fatiche dei loro inventori. I replicanti però si scoprono coscienti, senzienti e provano emozioni: quattro di loro si ribellano e inizia così la lotta per la sopravvivenza contro il cacciatore di taglie interpretato da Harrison Ford.

Sono per ora lontani i tempi predetti dai due film e dal manga citati, dove cyborg e computer umanizzati interagiscono e vivono insieme agli umani, ma la strada che la scienza vorrebbe prendere sembra quella. Non più un corpo fragile sottoposto a invecchiamento e deteriorato da tempo e malattie, ma una mente digitale inserita in una macchina perfetta dove si possa vivere in un mondo virtuale. Replicare il cervello umano e trasferirlo in un computer potrebbe però non essere così semplice come sembra. Il cervello è un organo complicato, talmente complesso da non poter essere sintetizzato nemmeno per la costruzione di computer sofisticati o di robot dalle fattezze umane. Il nostro organo pensante è composto da 100 miliardi di neuroni e ogni neurone produce circa 500/1000 sinapsi in uno scambio continuo di informazioni, reazioni e attività. Ricreare il cervello umano è al momento impossibile. Ma non è questa l’unica perplessità in merito al trasferimento dei “dati” di un cervello all’interno di un computer, sempre se in futuro sarà possibile.

L’essere umano ha una coscienza del sé che deriva non solo dai propri pensieri, dalle proprie esperienze e dai propri ricordi ma anche da tutto ciò che viene vissuto sensorialmente attraverso quel corpo fragile e imperfetto che gli studiosi cercano di perfezionare/eliminare. Cosa accadrebbe se la mente di una persona venisse trasferita all’interno di un oggetto inanimato? Che ne sarebbe di quella che è la coscienza reale di esistere (quella che i credenti chiamano anima) e che è, a tutti gli effetti, l’essenza di ogni persona? Quando un animale viene clonato, quello che ne risulta è un animale assolutamente identico ma sicuramente con una coscienza (un’anima) diversa da quella del suo “genitore”: cosa accadrebbe con il trasferimento della memoria dati di un essere vivente all’interno di una macchina? La domanda sfiora il filosofico ma è impossibile non porsela. Inoltre, è un approccio salutare considerare la morte come una malattia? Estirpare un’esperienza che è sempre stata ineluttabile e che contribuisce a dare un senso alla vita?

Le perplessità e i dubbi in merito all’immortalità umana e alla ricerca del ringiovanimento del corpo sono tante e legate a temi etici, morali e di semplice sopravvivenza: inquinamento, sovraffollamento, possibilità economiche delle diverse fasce di popolazione. Intanto le ipotesi rimangono solo studi su cui lavorano scienziati rinchiusi in laboratori, finanziati da grandi magnati dell’imprenditoria. La morte resta per ora un appuntamento inevitabile.
 
Tanja Pinzauti

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