- n. 5 - Maggio 2004
- Il pensiero di...
pubblico - privato
Pochi giorni prima dello scorso Natale mi pervenne, a firma della dottoressa Bianca Tiozzo, direttore generale della A.Se.F. di Genova, una lettera di doglianze sui contenuti di un mio intervento, apparso sul n. 10 (ottobre 2003) di Oltre Magazine, nel quale, mentre criticavo aspramente l'inefficienza della burocrazia in tutte le sue ramificazioni, mi abbandonavo ad apprezzamenti non proprio lusinghieri sulla intervista da lei rilasciata al nostro direttore Carmelo Pezzino, pubblicata sul n. 7/8 (luglio/agosto 2003). Sicuramente non sono il primo a lanciare anatemi sulla piovra dai mille tentacoli quale è la burocrazia in Italia (in senso lato), se è vero, come è vero, che personaggi di spicco si sono cimentati ù riuscendovi solo in minima parte ù nel tentativo di allentare la morsa che soffoca, stritola, inibisce, scoraggia, e non penso che, solo per questo, sia meritevole di biasimo.
Tanto premesso e, fugando le perplessità paventate dalla mia illustre interlocutrice, aggiungo che la sua lettera deve (come lo è stata) essere pubblicata, perché chiarificatrice, come sostiene, degli "aspetti più salienti dell'organizzazione Asef", ma anche perché Oltre Magazine non nega ad alcuno il diritto di replica ed, infine, perché è certo che, solo percependo il suono delle diverse campane, i lettori possono trarre le loro conclusioni. Mi auguro la dottoressa Tiozzo non voglia negare anche al sottoscritto il legittimo diritto di controreplica, dettato non dalla voglia di polemizzare a tutti i costi, ma dalla necessità di fare, secondo i suoi desiderata, chiarezza fino in fondo.
L'articolo (a mia firma) messo sotto accusa dalla dottoressa Tiozzo fa parte ù mi sia consentita la pomposità del termine ù di una trilogia costituita da un primo brano titolato "Innovazione o aria fritta?" (peraltro censurato dal mio stesso direttore), inserito nel n. 9 di Oltre Magazine e di una "lettera aperta al direttore ed ai lettori" della rivista che, data la sua lunghezza, ha visto la luce in due riprese successive (n. 10 e 11). Può darsi che la dottoressa Tiozzo abbia letto soltanto il pezzo al quale fa riferimento nella sua risentita missiva, cioè quello centrale (n. 10), altrimenti ritengo che, per la perspicacia e la preparazione che dimostra, la dottoressa Tiozzo avrebbe compreso che il dilungarmi nel parlare di me stesso, lungi dal voler essere una inane folata apologetica dettata da presunzione o da mania di protagonismo (illusorie velleità che caratterialmente non mi appartengono), era la esigenza di illustrare in quel contesto specifico il "personaggio" che, pur essendo un semplice impresario funebre di provincia, non si è mai appiattito su se stesso, ma si è proiettato nel sociale, si è impegnato in politica (avulsa dalla partitocrazia), si cimenta nel culturale, così come avrebbe recepito che la frecciata indirizzata alla sua intervista era un semplicissimo esempio addotto per esplicitare quello che penso sulla burocrazia a tutti i livelli e su tutto ciò che da essa promane. Prerogativa non del tutto soggettiva, se risaputamente, nell'accezione comune, al concetto di burocrazia vengono accomunati quelli della inefficienza, dello sperpero e della improduttività, non disgiunti dall'arroganza e dalla superbia, che io amo definire, con un termine unico e più efficace, "spocchia". Se nell'Asef di Genova, da lei diligentemente diretta, non imperano queste qualità negative, non può fare che immensamente piacere al sottoscritto ed a quanti ci leggono. Ma vede, esimia dottoressa, il mio "guaio" è che quando leggo il termine "direttore" aggettivato dal sostantivo "generale" sono terrorizzato. Perché se alla qualifica di direttore, che già racchiude in sé il concetto di capo, responsabile, dirigente al massimo livello, si ritiene opportuno fare seguire l'aggettivazione di "generale" (fra l'altro con la G maiuscola), è implicito che nell'ente in oggetto vi sono altri "direttori" per così dire settoriali. Non per niente i dizionari definiscono quale direttore generale il "capo di più divisioni" e non per niente "generale" è il grado più elevato nella gerarchia militare, avendo ai suoi ordini tanti altri ufficiali, ognuno pienamente responsabile di reparti numericamente differenziati, ed è solitamente associato alla fascinosa immagine di uomo di indole battagliera, dalla corteccia dura e dalla indomita volontà. Altrimenti, mi scusi, se ve n'è uno solo di altissimo dirigente, che sovrintende a tutta la "baracca", a cosa serve quel "generale"? Non sarebbe d'accordo anche lei nel definirlo pleonastico?
Lei ci assicura che nell'Asef "due sono i dirigenti", cioè lei ed un altro (o un'altra) e ci sta bene. Anche perché né io, né tanto meno gli impresari funebri di tutta Italia, intendiamo "fare le pulci" all'Asef. Noi sappiamo soltanto che dove esistono aziende pubbliche ù in qualsiasi campo operino: pompe funebri, rifiuti solidi o trasporti ù notoriamente vi sono persone che lavorano (il minimo indispensabile), un certo numero di imboscati, portaborse, assimilati, ed una pletora di dirigenti ed amministratori. Non mi dirà che l'Asef non è dotata di un consiglio di amministrazione, con un presidente ed un congruo numero di consiglieri? E che il presidente o il direttore (generale o caporale che sia) non abbiano nemmeno un'auto (blu o di qualsiasi altro colore, forma e dimensione) a disposizione? Con relativo autista? Sarebbe veramente il primo caso in Italia. Va bene che i liguri hanno la cattiva e, a volte, immeritata, fama di essere tirchi, ma che il ricco Comune di Genova non autorizzi la sua "aziendaùfiglia" Asef a procurarsi almeno una Fiat 500 (anche usata) da dare in uso al presidente o al direttore generale, mi sa tanto di avarizia conclamata. E, comunque, ove occorra e senza offesa, previo consenso del direttore e dell'editore, si potrebbe sopperire a questa grave lacuna lanciando una sottoscrizione fra gli operatori privati, lettori di questa rivista. Sono certo che avrebbe esito positivo. Fra l'altro lei, dottoressa, asserisce di avere a disposizione due Fiat Punto praticamente ad uso "esclusivo" dell'utenza. Ma, per il medesimo uso, avrà anche degli altri automezzi specifici per lo svolgimento dell'attività di impresa, come furgoni e carri funebri. Ci faccia sapere quanti. È un dato interessante, così come è stato importante apprendere il numero dei servizi che l'Asef espleta in quel di Genova, dato che nella sua intervista mancava del tutto.
Ora, invece, devo sottolineare un'altra manchevolezza. Dopo averci parlato di efficienza, efficacia, snellezza e flessibilità della "sua" creatura, perché non ci fa conoscere anche i "dati salienti" dei bilanci di questa benemerita ed esemplare azienda pubblica? 4.500 servizi l'anno sono tanti! Rappresentano una montagna di soldi, a 6 zeri in euro o a 9 zeri in vecchie lire, quindi altrettanto sostanzioso dovrebbe essere il giro d'affari! E gli utili? Vi sono anche quelli? Oppure il Comune è costretto a ripianare periodicamente eventuali deficit di bilancio? Mi auguro di cuore che non ve ne sia bisogno! Perché, se così fosse, dubito che tutte le belle parole da lei spese nella sua lettera di recriminazione abbiano senso e motivo d'essere. E, visto che lei mi ci ha tirato per i capelli (quei 4 rimastimi sulla zucca), è moralmente obbligata a dare risposte chiare ed esaurienti ad ognuna delle domande. Non fosse altro che per fare onore alla chiarezza da lei stessa auspicata.
Infine, dottoressa, un'ultima spiegazione dovrebbe fornire (questa volta la invoco in prima persona): mi spieghi come mai l'Asef abbia acquisito (riporto le sue testuali parole) "la gestione di alcune Camere mortuarie ospedaliere, la cui aggiudicazione è il risultato di gare pubbliche". La gestione di camere mortuarie all'interno degli ospedali è una incombenza che compete al personale interno agli stessi nosocomi, che non può e non deve essere data in gestione a terzi; inoltre non mi sembra sia compatibile con l'attività di onoranze funebri, ancorché svolta da azienda comunale, per la qual cosa giro la questione alla competenza delle nostre associazioni di categoria, alle quali spetta il compito di tutelare i diritti delle aziende private, anche genovesi, che, di fatto, nella fattispecie, vengono defraudate e penalizzate per effetto di una concorrenza che non ho difficoltà a definire "sleale". Se ciò fosse avvenuto nella mia città, la rivolta scoppiata a Genova ad opera del suo settecentesco concittadino Giovanni Battista Perasso (detto Balilla), impallidirebbe.
Io non ho titoli accademici né roboanti investiture manageriali da anteporre al mio nome e cognome; non ho mai svolto 4.500 servizi; forse non li ho raggiunti neppure nel trentennale arco della mia attività lavorativa; però mi vanto di essere stato l'estensore empirico o autodidatta (scelga lei) di uno dei ricorsi presentati all'Autorità Garante della concorrenza e del mercato (Antitrust), che, inoltrato nel novembre ‘96,contemporaneamente a quello di Feniof, ha determinato lo "storico" pronunciamento del ‘98, che ha dato il via all'abbattimento delle privative comunali sui trasporti funebri; mi onoro di essere stato cooptato da questa prestigiosa rivista perché scelto fra migliaia di operatori del settore e mi appaga di venire mensilmente gratificato da decine di telefonate di (ex) colleghi operanti in grossi centri e nelle più remote lande della penisola; telefonate di compiacimento, di condivisione, di incitamento; tant'è che ho ritenuto necessario far precedere o seguire i miei interventi dalla "preghiera" di esternare, sia pur brevemente, per iscritto le lusinghiere testimonianze rivoltemi, affinché anche quelli che "contano" ne prendano coscienza e quelli che hanno accesso alle "stanze dei bottoni" ne facciano tesoro. Tutto ciò grazie ad una modesta preparazione culturale di base ed alla tantissima esperienza acquisita sia nell'espletamento del mio lavoro che durante la decennale militanza in Feniof, con la quale e grazie alla quale ho avuto la possibilità di arricchire il mio bagaglio di conoscenze nei molteplici viaggi fatti in giro per il mondo, senza contare le innumerevoli scorribande peninsulari. Ho scritto anche due libri ed ora ne sto scrivendo un terzo. Di una copia del secondo, titolata "Il dito nella piaga", interamente dedicato alle tematiche settoriali, l'ho omaggiata. Mi diletto a scribacchiare anche di altri argomenti che esulano. È il mio hobby, il metodo che ho scelto per sopravvivere, per reagire al declino ipocondriaco senile, per "ammazzare" il tempo che mi rimane. E quando scrivo non mi risparmio, facilmente eccedo e troppo spesso adopero termini "forti", perché "sento" l'argomento che tratto in forma viscerale. E mi piace infarcire lo scritto di ricordi personali, di sensazioni, di emozioni. È un fenomeno che, credo, si accompagni all'età: alla mia non si vive più se non restando abbarbicati ai ricordi, se non tuffandosi nel passato, se non bagnandosi ogni giorno nel mare dei rimpianti. Chiedo scusa, dottoressa, per essere ricaduto nell'errore di parlare di me stesso, ma, sa, io ed il mio lavoro abbiamo vissuto e continuiamo a vivere in simbiosi, siamo un tutt'uno inscindibile, non ci separiamo mai, anche ora che l'azienda è condotta da uno dei miei figlioli. Anche lei, del resto, si immedesima pienamente nella "sua" azienda, tanto da esaltarne la valenza nel suo complesso, senza distinzione alcuna fra dirigenti e collaboratori di ogni rango che, come dichiara, "ognuno, in base alla propria professionalità e competenza, concorre al raggiungimento dell'obiettivo, che è quello di rendere un servizio di qualità e rispondente alle esigenze della clientela". L'importante ù mi permetta di aggiungere ù è che il servizio non venga reso con pesanti costi e trascinandosi dietro bilanci truccati che andrebbero a pesare sulla collettività, come sovente accade nelle aziende pubbliche, che a volte altro non sono che carrozzoni clientelari al servizio della politica e della partitocrazia e tal'altra brutte copie degli enti da cui promanano. Nei miei scritti ho sempre deprecato aspramente e condannato duramente le aberranti malversazioni di certa parte della nostra imprenditoria che, proprio per effetto delle sue devianze, ha provocato l'intervento dei Comuni nel nostro comparto mercantile. Ma da questo alla accettazione incondizionata della presenza di derivazione pubblica nel mercato dei servizi funebri che, al pari di tanti altri, è (o dovrebbe essere) di pertinenza esclusiva della libera iniziativa privata, ce ne corre. Lei, dottoressa, non ne ha colpa o merito. Lei è una dipendente comunale investita di un ruolo delicato e di grande responsabilità che, evidentemente, svolge con passione e zelo, al pari di tutti i lavoratori dell'Asef. Lavoro e dedizione che meritano rispetto, anche se vincolati ad un principio errato. Ma, cerchi di immedesimarsi, io sto dall'altra parte della barricata e direttori generali, capi di gabinetto e quant'altro, per me, sono fumo negli occhi. Ora, però le barricate non le faccio più; le teorizzo, le auspico e mi sforzerei di viverle in prima persona se venissero promosse dalle nostre associazioni di categoria contro lo stupido dilagare delle spaccature normative regionalistiche. Così come le facemmo nella mia città, Foggia, in tema di privativa, con vittoria finale, dopo 10 lunghi anni di contestazioni, di giudizi e di spese. Le farei contro le imprese come la sua che usurpano il possesso, lecito o abusivo, di camere mortuarie ospedaliere. Le farei contro le autorità che tollerano queste occupazioni, che creano squilibrio nel nostro mercato al quale andrebbe garantita la piena libertà di scelta. Le farei contro i corrotti ed i corruttori, i conniventi, i procacciatori che trafficano nell'ombra. Le farei contro i miei (ex) colleghi che mettono sotto i piedi la deontologia. Le farei per protestare contro chi si sta dimostrando incapace di rappresentarne i diritti e le istanze nelle sedi istituzionali.
Mi creda, dottoressa Tiozzo, io non ce l'ho con lei, anzi, le dirò: lei mi ispira simpatia per il suo immedesimarsi con la "sua" azienda. Però, mi consenta un'ultima domanda: lei, cosa e quanto ha investito nella "sua" azienda? Al contrario, i piccoli imprenditori, come lo ero io, nella loro impresa hanno investito tutto: il loro impegno diuturno, la loro abnegazione senza tregua, i loro sacrifici misconosciuti, la loro dedizione senza risparmio, la loro stessa vita, quasi sempre a danno della famiglia e degli affetti più cari.
Allarmata e, allo stesso tempo, spaventosa la dichiarazione rilasciata ai media nei primi giorni del 2004, dall'On. Raffaele Costa, che denuncia il peso della burocrazia e fa sapere che solo nel 2003 sono stati sfornati 626 chilogrammi di nuove leggi, pari a 243.000 pagine. E stigmatizza che "nonostante l'impegno di Governo, Parlamento e partiti per rendere più agevole la vita dei cittadini, nonostante la legge di semplificazione, continua l'alluvione burocratica che caratterizza il nostro paese". (Fonte: Gazzetta del Mezzogiorno del 3/1/2004). In questa elefantiasi, un piccolo posto spetta anche a lei.
Un prelato che - presumo - non diventerà mai Cardinale o Santo, nei suoi voti augurali natalizi, ha auspicato: "dai politici meno chiacchiere e più amministrazione ‘controllata', ossia più servizi ai cittadini, più attenzione alla qualità della vita. I progetti economici competono agli imprenditori, agli industriali, ai commercianti. Ai responsabili della cosa pubblica il compito di progettare modelli di sviluppo, realizzare infrastrutture, curare le città, migliorare la vita sociale".
E quel grande economista e statista che fu Luigi Einaudi sosteneva: "migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l'orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritrarre spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi". Quanto precede è quasi l'identikit del piccolo/medio imprenditore privato. Quale è quello dei "papaveri" posti a capo delle aziende pubbliche? Che investono risorse della collettività, senza rischiare nulla di proprio, sfruttano la loro posizione dominante per schiacciare la concorrenza privata o, quanto meno, per sottrarle sostanziose fette di mercato e, se tutto va male, attingono alla inesauribile fonte della tassazione obbligatoria?
Alfonso De Santis