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Psicologia ed etica della volontà di morire

Ora che il caso Welby ha esaurito quel potere mediatico che ha indotto quasi tutti a schierarsi, possiamo iniziare a riflettere sui problemi posti da simili situazioni, senza le distorsioni indotte dalle semplificazioni inevitabilmente legate al parlare ed allo scontrarsi in pubblico.
La prima e forse più importante questione che emerge ogni qual volta qualcuno chiede di essere aiutato a morire è quella della "sovranità" della volontà individuale. Ci si deve allora innanzitutto chiedere: la volontà individuale è sempre da considerare "sovrana" o bisogna ammettere qualche eccezione?
Ad esempio, se un bambino vuole giocare fino a morirne o si dedica a giochi pericolosi che ne mettono a repentaglio l'incolumità, è legittimo limitare questa volontà? Se qualcuno vuole uccidere un altro, è legittimo limitare questa volontà? Se qualcuno vuole uccidersi o farsi uccidere, è legittimo limitare questa volontà? Risponderemo ovviamente in modo affermativo se considereremo l'incolumità del bambino un bene superiore a quello della sua libertà di giocare quanto vuole e a qualunque gioco; la vita di qualcuno un bene superiore a quello della libertà di qualcun altro di annullarla; la vita di qualcuno un bene superiore a quello della libertà di dare ad essa il valore che vuole e di decidere quando porvi fine. Nei primi due casi (quando, cioè, si tratta di limitare la volontà di altri) il buon senso viene in aiuto e possiamo presupporre quasi unanime l'accordo nel limitare la volontà individuale. Al contrario, nel terzo caso (quando si tratta di limitare la propria volontà), un dissidio profondo attraversa tutti noi e, per uscire dall'inquietudine che esso provoca, tendiamo a schierarci, a seconda delle epoche, a favore o contro la legittimità assoluta della volontà individuale.
Siamo usciti (e il caso Welby sembra mostrarlo chiaramente) da un'epoca in cui la maggior parte delle persone pensava che la volontà individuale di chi voleva morire andasse limitata, per entrare in un'epoca in cui secondo la maggior parte delle persone la volontà individuale non va limitata anche quando si sceglie di morire. Ma, a parte le mode che cambiano, perché sarebbe più "giusto" limitare piuttosto che non limitare la volontà individuale di chi sceglie di morire? Possiamo fermarci a constatare chi ha vinto sul piano propagandistico, fare una statistica di maggioranze e minoranze e adeguarci democraticamente alla preferenza maggioritaria, conferendo a questa la "forza della legge"? Se le leggi si facessero così (cioè seguendo le preferenze delle maggioranze che prima o poi si formano in modo propagandistico), che garanzia avremmo di avere leggi "giuste"? Se così fosse "la ragione sarebbe sempre dalla parte dei vincitori" e non ci resterebbe che combattere per conquistare la maggioranza dei consensi alla nostra opinione, la quale non avrebbe per i vinti alcun valore di convinzione e li indurrebbe a prepararsi a vincere a loro volta, perpetuando così la guerra tra le opposte opinioni e mettendo la guerra (come accade già oggi, d'altronde, anche se nelle democrazie è una guerra senza spargimento di sangue) al centro della vita sociale. Credo vi sia un altro possibile metodo che consiste nell'indurre le differenti opinioni a confrontarsi non dando per scontato di essere ciascuna nel giusto, ma cercando di riconoscere le ragioni degli altri.
Nel caso in questione il problema sul quale le opposte opinioni non riescono a confrontarsi è quello di considerare la volontà individuale sovrana anche quando per affermarsi sopprime se stessa (cioè quando vuole morire), oppure la vita individuale un bene che va difeso anche contro la volontà dell'individuo che la possiede?
Non potrebbero, ad esempio, riconoscere coloro che pensano che la volontà sia sempre sovrana anche quando si vuole morire che esistono casi in cui il male che si fa agli altri o a se stessi scegliendo di morire vanifica il bene della volontà sovrana? Non potrebbero, d'altra parte, coloro che considerano il bene della vita individuale sempre superiore al bene della libera volontà individuale, riconoscere che vi sono casi in cui conservare una vita individuale procura così tanto male a se stessi e agli altri da rendere più "giusto" non vivere piuttosto che vivere? Non potrebbero, in altre parole, riconoscere che allorché il Bene si scinde in "beni" questi sono destinati a confliggere ostacolando il Bene? Non potrebbero allearsi per far confluire il bene della volontà individuale e il bene della vita individuale in un unico Bene?
In sostanza i sostenitori della "volontà sovrana" e quelli della "volontà limitata" hanno entrambi buone ragioni da addurre, ma entrambi sbagliano quando cercano di "totalizzare" un bene particolare facendolo diventare il "Bene". Che tutto il Bene non possa raccogliersi nella volontà sovrana né nella vita individuale andrebbe riconosciuto da tutti, per poter poi stabilire caso per caso quando il bene della volontà individuale debba prevalere su quello della vita individuale. Torna così l'inquietudine che il totalizzare il Bene in un "bene" cercava di eliminare (pensare che la volontà è sempre sovrana è altrettanto tranquillizzante che pensare che la vita individuale vada sempre difesa). E questo, lungi dal rendere inutili le leggi, indica la necessità di una legge che induca a decidere caso per caso e non sulla base di uno standard stabilito dalle maggioranze statistiche che di volta in volta si succedono in maniera propagandistica. Si potrebbe addirittura scoprire che le due tesi sulla volontà di morire hanno bisogno l'una dell'altra per potersi affermare, come dimostrato dal caso Welby.
Welby non voleva essere attaccato ad un respiratore, ma la volontà dei suoi cari di difendere la sua vita anche contro la sua volontà ha fatto sì che invece al respiratore è stato attaccato, e per tanti anni. Risorgendo la paura di morire soffocato, Welby ha espresso la volontà di morire, cioè di essere staccato dal respiratore, ma questa ha dovuto scontrarsi con la posizione del medico che l'aveva assistito per anni il quale si è rifiutato di compiere tale gesto non riconoscendo la "sovranità" assoluta della volontà di morire del paziente. Allora Welby si è rivolto ai sostenitori (politico-ideologici) dell'eutanasia i quali gli hanno consigliato di coinvolgere la massima autorità civile, il Presidente della Repubblica, perché si facesse promotore di una legge che riconoscesse ufficialmente la sovranità della volontà di morire. Il Presidente ha rinviato pilatescamente il caso al Parlamento dando l'impulso ad occuparsene, ma in Parlamento coloro che non riconoscono la sovranità della volontà individuale quando vuole sopprimere se stessa sono in maggioranza e l'appello di Welby è rimasto inascoltato. Allora i radicali, spalleggiati da quasi tutti i mezzi di comunicazione di massa, hanno lanciato una campagna propagandistica che ha avuto l'effetto di determinare un pronunciamento della magistratura, la quale però, non potendo basarsi su una legge di legittimazione della volontà di morire (legge che non esiste, anzi ne esiste una contraria), ha rinnovato il gesto di Ponzio Pilato. Allora i radicali sono passati dalla propaganda attraverso le parole alla propaganda attraverso i fatti: si sono accordati con un medico convinto che mettersi a disposizione del paziente significa rispettare la sua volontà e non essere al servizio del suo bene anche quando non coincide con la sua volontà, e hanno prodotto l'evento mediatico della morte volontaria di Welby assistita da un medico che gli ha fatto una sedazione e poi ha staccato il respiratore. La volontà di morire, non avendo ottenuto una legittimazione dal Parlamento né dalla magistratura, ma solo dall'opinione pubblica, si è cioè imposta affermando da sé la propria legittimità. Ci si poteva aspettare a questo punto che i sostenitori del valore assoluto della vita individuale incitassero ad un'azione legale contro il medico, ma c'è stato un colpo di scena: i familiari hanno chiesto i funerali religiosi. La volontà di Welby di morire non doveva essere così "sovrana" per i suoi cari se si sono affrettati a chiedere proprio a coloro che più l'avevano avversata una sorta di legittimazione spirituale attraverso il funerale religioso. Come era prevedibile, ma non inevitabile, la Chiesa non ha concesso i funerali religiosi perché, facendolo, avrebbe dato il messaggio che la volontà di morire è comunque legittima se poi coloro che la avversano "benedicono" il suo effetto (cioè la morte). Naturalmente coloro che avevano fino a quel momento combattuto la Chiesa per la sua avversione a riconoscere la sovranità della Volontà di morire di Welby, le hanno rimproverato di non essere sufficientemente misericordiosa e caritatevole, appellandosi alla stessa Carità (amore per la vita) che avevano avversato fino alla morte di Welby. Le voci che a questo punto si sono levate all'interno della Chiesa a stigmatizzare la mancata concessione del funerale religioso sono state di tre tipi: Don Ciotti ha detto che Dio è più misericordioso dei suoi sacerdoti e che certamente ha accolto Welby fra le proprie braccia; il Cardinale Martini ha detto che bisogna riconoscere come sovrana la volontà di morire quando si limita a rifiutare le cure e non quando è atto fattivo di soppressione della vita (eutanasia o suicidio); il cardinale vicario del Papa ha detto che ha dovuto non concedere il funerale religioso ma che, per tale motivo, ha sofferto.
Nel continuo richiamarsi delle due posizioni in conflitto si scorge l'impossibilità delle relative tesi di fare a meno l'una dell'altra, come due parti di una sola verità: la volontà individuale, per essere sovrana, ha sempre bisogno di essere legittimata (dalle autorità, dalle leggi e dagli stessi avversari), cioè di non doversi legittimare da sé; d'altra parte si può limitare solo una volontà che si pone come libera e sovrana. Cosa accade nei casi in cui l'individuo non sa se vuole vivere o morire? Chi decide fino a quando dovrà vivere e quando dovrà morire? Se, in altri termini, si considera la volontà di morire nel suo "formarsi" nella storia di una vita, si può constatare che non sempre essa diventa una volontà che si pone come sovrana, ma che si situa lungo un continuum che va dall'assenza di volontà alla volontà sovrana passando per una gamma di posizioni intermedie. Il caso Welby distorce la realtà imponendo di porre il problema della volontà individuale di morire solo quando essa si presenta nel suo volersi sovrana di fronte al valore assoluto della vita. L'anteporre il valore assoluto della vita individuale al valore della volontà dello stesso individuo, d'altra parte, distorce la realtà, imponendo di porre il problema della volontà individuale di morire solo quando il valore assoluto della vita viene negato dalla volontà di morire di colui che la possiede. In realtà sia la volontà di morire che il valore della vita che vuole limitarla si presentano in forme ben più numerose delle due forme estreme con cui si sono presentate nel caso Welby e nel dibattito distorto che ne è seguito. Esse derivano dalle dimensioni dell'uomo che si possono riassumere nelle tre categorie filosofiche dell'in-sé, del per-sé e del per-altri.
In sé, nella sua naturalità biologica, l'uomo può voler morire solo per "ragioni oggettive": il cervello valuta invivibile la vita e produce la volontà di morire. Per sé, come persona unica e irripetibile, l'uomo può voler morire solo per "ragioni soggettive": dentro di sé sente la vita come nemica e deve "levar la mano su di sé". Per-altri, cioè come essere umano vulnerabile e sensibile agli altri, l'uomo può voler morire solo per salvare altri, cioè per ragioni etiche: patisce per il male che la sua vita fa ad altri e a se stesso e desidera morire. Vi corrispondono le tre forme della morte volontaria: l'eutanasia, il suicidio, il sacrificio. In tutti e tre i casi la volontà può porsi come sovrana o come da limitare, ma si tratta sempre di un processo dinamico che può cambiare direzione in ogni momento se le crisi che lo costellano cambiano l'individuo.
Welby aveva rifiutato per ragioni oggettive di essere attaccato ad un respiratore, poi per anni e anni ha vissuto attaccato ad esso: non sarà stato perché ha scoperto che la sua valutazione della vita attaccata al respiratore come vita invivibile si è rivelata sbagliata? Poi ha sentito dentro di sé come insopportabile la minaccia di morire soffocato (che altri nelle sue stesse condizioni sentono come sopportabile) e, se avesse potuto, si sarebbe suicidato; ma dipendeva da altri per non morire soffocato: hanno il diritto gli altri di difendere la vita di qualcuno che la rifiuta? Se sì, le cose andranno in un modo, se no, le cose andranno in maniera diversa.
Gli altri non hanno voluto esplicitamente e ufficialmente assumersi la responsabilità di aiutare Welby a morire ed egli ha dovuto mettere tutti di fronte al fatto compiuto: cosa sarebbe accaduto se non avesse trovato nessuno disposto ad aiutarlo? Sarebbe stato un bene o un male che Welby fosse ancora vivo contro la sua volontà? Sarebbe stato sufficiente considerarlo un male solo perché non corrispondeva alla sua volontà? E se Welby fosse ancora vivo e potesse ancora testimoniare (magari dal Parlamento, o scrivendo un altro libro) di fronte ad altri la sua volontà di morire, ma dando a questi la possibilità di difendere la sua vita, cioè di prendersi l'onere di dimostrargli che ancora valeva qualcosa per gli altri anche se non valeva niente per sé?
 
Francesco Campione

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