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La Tanatoprassi

Il prelievo generale e quello cardiaco

L’eliminazione dei liquidi biologici, delle materie e dei gas costituisce un’altra fase essenziale della tanatoprassi. Contribuisce indiscutibilmente allo scopo conservativo ed estetico del trattamento poiché il sangue, i differenti umori, le secrezioni, le materie, i gas e gli alimenti non completamente digeriti sono sede di una proliferazione batterica disastrosa che bisogna bloccare per portare a termine con successo l’intervento.
Qualche minuto dopo l’effettuazione dell’iniezione arteriosa il tanatoprattore procede al prelievo del sangue; ma può anche accadere che inizi con il prelievo cardiaco al fine di facilitare la ricerca arteriosa e di evitare rigonfiamenti del corpo nel momento dell’iniezione del fluido. Il modello accademico che raccomanda di effettuare l’iniezione prima dell’aspirazione cardiaca è quindi modulabile quando si tratta di applicare la teoria all’operatività sul campo.
Nel momento dell’iniezione la pressione permette di spingere il sangue venoso verso il cuore, fatto che dopo qualche minuto può provocare il rigonfiamento di alcune parti del corpo o accentuare la lividità del viso. È quindi indispensabile che il tanatoprattore estragga il sangue tramite prelievo cardiaco in modo da contrastare le conseguenze anestetiche di questo gonfiore. Inoltre, lasciare stagnare il sangue nel corpo provocherebbe inevitabilmente l’accelerazione di un fenomeno di fermentazione nocivo alla conservazione del cadavere. In Francia il dissanguamento si effettua per aspirazione cardiaca con un tubo di prelievo (chiamato comunemente “trequarti”) introdotto nell’atrio destro del cuore per recuperare il sangue che vi si è raccolto (il fluido iniettato penetra le arterie e i tessuti e spinge il sangue nelle vene verso l’auricola destra del muscolo caridaco). Il tubo di prelievo somiglia a un grande ago cavo di lunghezza variabile munito da un lato di una impugnatura e dall’altro di una punta che presenta dei fori. All’estremità dell’impugnatura è fissato un attacco sul quale viene a posizionarsi un tubo (in vinile o in silicone) che collega il “trequarti” al recipiente di aspirazione monouso, il quale è collegato a sua volta con un secondo tubo alla pompa manuale o elettrica di aspirazione. Il principio meccanico dell’aspirazione si basa sulla depressione creata nel recipiente. Come per l’iniezione, l’aspirazione può effettuarsi anche per gravità. È sufficiente mettere il recipiente d’aspirazione inclinato (al di sotto del corpo trattato) perché il sangue vi coli all’interno.
Mentre l’iniezione arteriosa è in corso, diversi indici visivi aiutano il tanatoprattore a decidere il momento opportuno per iniziare l’operazione di prelievo cardiaco. Secondo Jacques Marette bisogna iniziare “quando si produce una fuoriuscita importante dal naso o dalla bocca; quando la pressione diventa troppo forte e fa gonfiare le vene giugulari; quando il viso diventa violaceo sotto la pressione del sangue che non drena abbastanza velocemente; quando una parte del corpo comincia a gonfiarsi in maniera anormale”. Preciso e invasivo, questo gesto richiede da parte dell’operatore una buona esperienza e solide conoscenze di anatomia. Il punto di penetrazione del tubo di prelievo deve essere “nel terzo superiore di una linea immaginaria che va dall’apofisi xifoide dello sterno all’ombelico”.
Non appena il “trequarti” viene introdotto nel cuore e il sistema di aspirazione è attivato, un flusso di sangue va a riempire il boccale di aspirazione. Il passaggio visibile del sangue nel condotto permette al tanatoprattore di seguire l’evoluzione dello sgorgo. Secondo molti professionisti il drenaggio è più facile da compiere “quando il sangue è caldo e fluido, quindi quando il cadavere non è stato troppo a lungo nella cella frigorifera”. Quando il boccale di aspirazione è pieno, l’operatore lo sostituisce con un altro. Dal 1999 la legge francese impone di conservare questi rifiuti e di provvedere al loro smaltimento (per incenerizione). Tutti i recipienti riempiti devono essere messi negli scompartimenti di un cassone da trasporto atto a questa operazione.
È difficile quantificare la quantità di sangue prelevata. Tutto dipende dallo stato del corpo trattato (corpulenza, patologia, trattamento terapeutico,…). Possiamo tuttavia azzardare, riferendoci alla lunga esperienza di un professionista, che “un cattivo drenaggio si attesta su un valore minore di due litri di sangue recuperati e un buon drenaggio intorno ai quattro litri“. Quando non vi è più sangue nel tubo di evacuazione, prova che il drenaggio è terminato, è possibile iniziare il trattamento generale delle viscere della cavità toracica e addominale. È essenziale estrarre da questi organi i diversi umori, le secrezioni, le materie (feci liquide e alimenti parzialmente digeriti) e i gas che sono sede di una intensa proliferazione batterica dagli effetti molto sgradevoli (odori fetidi, rigonfiamenti, fuoriuscite dagli orifizi naturali) e che costituiscono quindi un sicuro intralcio.Con l’aiuto di un tubo di prelievo, l’operatore perfora e aspira con cura i polmoni, lo stomaco, l’intestino, il colon, il retto, il fegato e la sua vescicola, i reni, la vescica, il pancreas, la trachea. È importante effettuare un prelievo generale completo e minuzioso al fine di evitare tutti i rischi di fuoriuscite o di rigurgiti deleteri per una presentazione curata del defunto. Con lo stesso tubo il tanatoprattore esplora il cadavere per ripulirlo dagli umori e dai gas. Obiettivo è quello di estrarre il massimo possibile, perché secondo un esperto professionista, “non è mai possibile garantire di aver aspirato tutto dalle cavità”. D’altro canto l’operatore non sa mai quale quantità di liquidi andrà a recuperare. Ad uno è accaduto di drenare cinquantun litri d’acqua, d’ascite e di sangue da una persona di grossa taglia che presentava un caso acuto di edema; e un altro mi ha confidato di essere rimasto sorpreso quando un giorno ha prelevato sedici litri di liquido polmonare. Estratto quanto più è possibile dalle cavità, il trattamento delle viscere procede disinfettandole e seccandole con l’aiuto di un fluido diffuso dallo stesso “trequarti”.
Le viscere sono quindi trattate con l’aiuto di un potente disinfettante utilizzato allo stato puro (in generale un litro per un adulto di settanta chili). Il fluido per le cavità è spesso commercializzato in una bottiglia in plastica nella quale il tanatoprattore inserisce un iniettore, strumento che assomiglia a un cilindro a U metallico e che è munito, ad una delle sue estremità, di una ghiera di raccordo che si avvita sul collo della bottiglia, cosa che permette di utilizzarla come un flacone a gravità per far scorrere il prodotto. L’operazione di diffusione del liquido è semplice e rapida. Con una mano l’operatore tiene in alto la bottiglia, al di sopra del cadavere (con l’imboccatura verso il basso), mentre con l’altra manipola il “trequarti” grazie al quale il fluido viene iniettato nelle cavità. È importante far penetrare una quantità sufficiente di soluzione per arrivare alla saturazione degli organi e del loro contenuto. Un’apertura situata a livello del tappo di raccordo permette di controllare con il dito la velocità di emissione del liquido.
In definitiva, poiché l’obiettivo principale del trattamento è la conservazione temporanea del corpo, l’evacuazione dei liquidi biologici, delle materie e dei gas costituisce la seconda specificità tecnica. Le viscere, fonte di una intensa proliferazione batterica e di una putrefazione irrimediabilmente disastrosa, sono da sempre state oggetto di trattamenti radicali, quando si è trattato di preservare il cadavere per un lasso di tempo definito o infinito. Gli imbalsamatori egiziani infatti, come gli esperti incas o guanches, praticavano lo svisceramento per risolvere il delicato problema della decomposizione che impediva una conservazione eterna del cadavere. Oggi si ricorre al prelievo dei liquidi da questi organi e alla loro disinfezione. I metodi utilizzati sono molto diversi, ma il principio tecnico è identico.
Anche in questo la tanatoprassi si differenzia dalla toeletta mortuaria poiché il modus operandi di quest’ultima non si basa su nessun intervento interno che in più vada anche a mutilare il cadavere. Il trattamento conservativo si differenzia quindi tanto per il suo aspetto denaturante e mutilante quanto per quello propriamente tecnico che richiede solide conoscenze anatomiche, abilità e una certa esperienza. Non ci si può improvvisare tanatoprattori ed essere capaci di trovare al primo colpo il punto in cui introdurre il “trequarti” per realizzare il prelievo cardiaco. Come non è possibile ispezionare la cavità toracica e addominale per evacuare tutti i liquidi e le materie organiche o ancora scoprire, esteriorizzare e preparare un’arteria per fare una iniezione. È necessario avere un diploma di stato, aver seguito una formazione teorica e pratica ed aver superato i relativi esami, cosa che invece non è richiesta per la toeletta mortuaria, che si impara di solito direttamente sul campo. La padronanza delle tecniche di prelievo e di iniezione richiede infatti una conoscenza ed un savoir-faire particolari che non hanno niente a che vedere con le competenze necessarie per eseguire una buona toeletta mortuaria.
Aggiungiamo infine che la manipolazione degli umori, delle materie e dei gas conferisce alla tanatoprassi un livello di pericolosità più alto di quello della toeletta mortuaria. Se la manipolazione del cadavere costituisce in generale un rischio di contagio per gli operatori (che siano tanatoprattori, agenti di pompe funebri o personale ospedaliero) da parte degli agenti patogeni aerobi, il cadavere sottoposto a tanatoprassi, di cui si è violata l’integrità e al cui interno si è penetrati con una incisione e con un prelievo, raddoppia il rischio per l’operatore esponendolo anche ai germi anaerobi. Per questa ragione le autorità hanno instaurato severe misure d’igiene imponendo il recupero e l’eliminazione obbligatoria dei rifiuti delle attività di trattamento a rischio infettivo (DASRI). Niente di tutto ciò esiste per la toeletta mortuaria. Nessuna regola di profilassi prevista dalla legge inquadra questa pratica, ma sul campo gli operatori prendono quasi tutti la precauzione di indossare un camice e dei guanti. Quanto all’acqua utilizzata per la toeletta del defunto essa viene gettata nello scarico fognario, quando la toeletta viene fatta a domicilio, o nella rete interna di smaltimento (con trattamento prima dell’immissione nella rete fognaria) dello stabilimento sanitario o dell’agenzia di pompe funebri. Se la tanatoprassi interviene all’interno incidendo le carni e perforando gli organi, la toeletta mortuaria agisce sulla superficie del corpo pulendo l’epidermide. La verticalità degli atti praticati dal tanatoprattore si contrappone quindi all’orizzontalità dei gesti compiuti dal personale che esegue la toeletta mortuaria.

Ma la parte chirurgica del trattamento conservativo non si riduce alle sole fasi di iniezione arteriosa e prelievo dei liquidi biologici. L’operatore deve ancora portare a termine il trattamento! Continueremo a parlarne nei prossimi mesi…
 
Mélanie Lemonnier
traduzione a cura di Nara Stefanelli
Immagini di martine Eudel

“Thanatopraxie. Miroir de la mort, reflets de vie”, (2010)


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