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Pensieri ed Opinioni

La morte non indica solamente il cessare di vivere, ma è anche una condizione legata inevitabilmente a qualcosa che termina, o che semplicemente muta, e che quindi comprende in sé anche l'aspetto positivo di qualcosa di nuovo, diverso, che inizia.

Morte allora intesa come trasformazione, perdita di uno stato precedente, che si accompagna necessariamente anche in concomitanza di una morte fisica, della perdita di una persona cara. La necessità di una elaborazione del lutto subentra allora per tutti i cambiamenti che implichino un lasciare qualcosa o qualcuno per andare verso qualche cos'altro.

Ma ritornando invece nello specifico della morte peculiarmente fisica, intesa come perdita del corpo, essa può essere sentita come cambiamento per una persona che, non credente, non vede tale trapasso come passaggio obbligato per una vita ultraterrena o ancora per una successiva reincarnazione? Riflettere sulla morte è una esigenza che nasce forse dalla volontà di controllare razionalmente un evento invece incomprensibile a livello mentale e che, data la sua natura inevitabile per ognuno di noi, risveglia sensazioni angosciose.

Sigmund Freud, nella sua ultima formulazione della teoria delle pulsioni, elaborata nel 1920, parla di pulsione di morte contrapponendola a quella di vita, in quanto tende alla riduzione di tutte le tensioni fino a ricondurre l'essere vivente allo stato inorganico, agendo dapprima verso l'interno come autodistruzione e poi verso l'esterno come pulsione di aggressione e di distruzione.

In realtà dal punto di vista psicologico la morte non è interessante come evento fisico finale, come cessazione definitiva dei processi vitali di un organismo, ma come anticipazione. L'uomo, infatti, a differenza di tutti i viventi, sa di dover morire e il tema della morte, sebbene spesso rimosso, è onnipresente durante tutta la sua vita, sia pure solo a livello di fantasmi, talvolta inconsci, altre volte anche troppo coscienti.

Fra tutti gli esseri viventi, l'uomo rappresenta la sola specie animale che accompagna la morte con un rituale funebre complesso e ricco di simboli, che ha creduto e crede alla rinascita dei defunti, la sola specie, scrive L. V. Thomas in Antropologia della morte, "per la quale la morte biologica, fatto di natura, si trova continuamente superata dalla morte come fatto di cultura" (1975, p. 10).

Parlare della morte è come parlare di una realtà inevitabile quanto sconosciuta: ognuno di noi ha l'esperienza solo di quella altrui, che si riflette però nel proprio mondo interno dando voce a sofferenza, dolore, disperazione, fantasie di perdita, abbandono, solitudine e paure; paure per un destino definitivo sempre inaccettabile per la vita altrui ma soprattutto per la propria, perché da una prospettiva personale, e soprattutto di una persona giovane, la vita sembra possedere, illusoriamente, tutte le caratteristiche di eternità.

Il pensiero della propria morte compare e scompare fra i molteplici pensieri di ognuno, anche se sembra ci siano persone più "predisposte" verso tale preoccupazione, come se avessero al proprio interno una maggiore presenza di morte o di principio di morte, inteso in senso freudiano, in base alle proprie esperienze arcaiche.

Nonostante tale tendenza è sempre più immediatamente disponibile la riflessione sulla morte altrui, mezzo per tentare di capire la caratteristica di finitezza e temporalità dell'essere umano, alla quale non possiamo sottrarci, ma che ci permea dal momento stesso del nostro concepimento. Si potrebbe provare, però, anche ciò che soleva fare D'Annunzio rinchiuso nella sua villa sul lago di Garda, il Vittoriale: egli, in solitudine, si sdraiava in una bara che si era appositamente fatto costruire, e cercava di concentrarsi sulla sua morte, facendo il possibile per capire il significato del non esistere più.

Non è possibile, malgrado ogni sforzo di volontà, carpire la sensazione del non esistere più, dell'annullamento totale di tutte le facoltà, dell'assenza della vita. Appare uno sforzo vano, un po' come quando capita di volere comprendere il termine di "infinito" che, per la sua vastità, non è comprensibile dalla mente umana, capace di contemplare direttamente ciò che è materialmente raggiungibile.

E poiché la morte è uno stato che si può raggiungere solo abbandonando il corpo fisico, la mente, inesorabilmente ancorata ad esso, non può comprenderla. La morte altrui, unico modo di sperimentare tale realtà, viene vissuta anche come morte personale: infatti è proprio come se una parte di noi morisse insieme ad una persona cara a causa della dolorosa separazione.

Personalmente, posso dire di avere iniziato l'esperienza della morte da bambina, attraverso la morte di animali a cui ero estremamente legata affettivamente, ed avere potuto così provare la nostalgica e incolmabile sensazione della scomparsa senza ritorno, un senso di vuoto incolmabile, la disperazione di non potere riavere mai più un gattino che poco prima mi dormiva in braccio. Ancora la morte per me significava l'angosciosa possibilità di perdere i genitori, comune in molti bambini, che mi provocava un dolore acuto ed una sensazione di impotenza di fronte alla possibilità di sopravvivere io stessa.

E poi ancora la morte di un nonno che ha significato per me sperimentare per la prima volta in casa l'atmosfera del lutto condiviso; e da adolescente la morte della nonna, che questa volta ha assunto caratteristiche più fisiche, oltre che emotive, perché è stata la prima volta che ho potuto vedere una persona defunta in una camera mortuaria. Alla mia esperienza di morte come perdita emotiva si è aggiunta quella concreta di un corpo senza vita. Da giovane adulta ho ancora vissuto la morte di una persona che mi era molto vicina emotivamente, affettivamente, parte del mio mondo più profondo, oscuro, nascosto: era il mio analista, che morendo si è portato via con sé un pezzo di quel mondo interno.

E poi la morte dell'ultima nonna, trovata quasi senza vita da me: una tappa traumatica nella mia esistenza; una morte violenta, un tentativo di strappare da quella fine una persona che se ne era già praticamente andata, lasciando solo uno spettacolo cruento di un corpo straziato nel sangue. La vita di chiunque è attraversata da esperienze di morte e lutti da elaborare faticosamente, e le persone affrontano questa realtà o se ne difendono come possono. Ci sono svariati comportamenti compulsivi, o autolesionistici, o ancora di esasperata ricerca spirituale, il cui obiettivo è proprio opporsi ad un evento che deve inevitabilmente arrivare.

È interessante notare come l'atteggiamento delle persone rispetto alla morte sia o di fuga, utilizzando un meccanismo difensivo di rimozione, con l'inconscio tentativo di eliminare una realtà temuta, o di evocazione, con l'obiettivo primario di esorcizzarla. Tale evocazione può contemplare quei comportamenti rischiosi per la vita, quale sfida alla vulnerabilità dell'essere umano, prova di onnipotenza davanti ad un destino ineluttabile; o ancora comportamenti autolesionistici, in cui l'obiettivo autodistruttivo mira ad alleviare il dolore dell'attesa di qualcosa che comunque si teme arriverà.

Non veniamo educati all'accettazione della morte come parte integrante della vita. Quando talvolta mi sono trovata ad affrontare discussioni riguardo tale tema, ho spesso sentito dire, apparentemente con molta convinzione, che la morte non deve essere contrapposta alla vita, in quanto, insieme alla nascita, ne è invece una sua componente. Ma se la morte è qualcosa di così accettabile perché parte della vita, come mai tale affermazione non riesce ad alleviare l'angoscia di chi riceve tale sorta di rassicurazione? Forse perché si ferma ad un mero livello razionale, ed invece le considerazioni esistenziali si svolgono ad un livello molto più emotivo ed intuitivo.

Quando ero adolescente ricordo che tra amici avevamo fatto il patto che il primo che fosse morto avrebbe dovuto assolutamente e con tutti i mezzi fare il possibile per informare gli altri su ciò che c'era "dopo". Questo bisogno di rassicurazione non è presente solo nell'infanzia o nell'adolescenza, ma si esprime lungo tutto il corso della vita in diversi modi: la ricerca spirituale esasperata, l'attaccamento a nuovi movimenti religiosi, a riti esoterici, sono modi di cercare l'immortalità, così come il culto esasperato del corpo e della salute fisica a cui la medicina estetica e la chirurgia plastica danno substrato sostenendo le fantasie onnipotenti di sconfiggere il tempo, il cui scorrere porta alla morte.

Se proprio non è possibile sconfiggere la morte, almeno si può cercare di renderla meno oscura, sconosciuta e quindi paurosa. Ecco allora il crescente successo di medium che parlano con i defunti, mettono in contatto vivi e morti riferendo tutto ciò che avviene in quel mondo che solo in pochi hanno la possibilità di conoscere da vivi per poi rassicurare gli altri incapaci di elaborare il loro lutto e a cui l'ingresso momentaneo nell'aldilà non è concesso.

Le immagini liete e piene di pace che riempiono i racconti di medium e veggenti vanno allora ad alleviare le ferite, a tamponare l'angoscia provocata da qualcosa che ci attende e a cui non possiamo sottrarci; ma soprattutto comunicano che nell'aldilà c'è coscienza, che noi continueremo ad esistere, sebbene in una forma energetica differente, consapevoli di ciò. Sapere allora che la morte non è annientamento totale, ma che qualcosa di noi continua a vivere, ed anche in modo lieto, rende tale avvenimento più accettabile.

Di conseguenza viene accresciuta l'importanza data ai riti funebri, simbolo di passaggio verso qualcosa di sconosciuto, ma che hanno lo scopo di accompagnare il defunto in questa nuova dimensione. Vorrei concludere con una frase di Freud, che non necessita di commento perché lascia la riflessione aperta su tale argomento, come altrimenti non potrebbe essere:

"abbiamo formulato l'ipotesi di una pulsione di morte, a cui competa il compito di ricondurre il vivente organico allo stato privo di vita; l'Eros perseguirebbe invece il fine di complicare la vita, allo scopo naturalmente di conservarla, aggregando in unità sempre più vaste le particelle disperse della sostanza vivente.
Entrambe le pulsioni agirebbero in modo conservativo, nel senso più rigoroso di questo termine, poiché mirerebbero al ripristino di uno stato turbato dall'apparire della vita. L'apparire della vita sarebbe dunque la causa della continuazione della vita e al tempo stesso dell'aspirazione alla morte; e la vita stessa sarebbe una lotta e un compromesso fra queste due tendenze
" (Sigmund Freud, L'Io e l'Es, 1922, pag. 502-503).
 
Federica Nasalli Rocca


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