- n. 2 - Febbraio 2004
- Psicologia
la paura della morte
La paura della morte ci appare come qualcosa di evidente e di universale: la possiamo constatare facilmente quando scappiamo di fronte alle minacce di morte; e c'è un diffuso senso comune per cui "tutti abbiamo paura della morte".
Le cose si complicano se consideriamo che moltissime persone dichiarano pressappoco così: "non ho paura di morire, ho paura di soffrire".
La contraddizione non può essere trascurata poiché non ci sarebbe nessuna possibilità di intendersi e di convivere in un mondo comune e di aiutarsi se ci si dividesse tra chi ha paura della morte e chi non ne ha: essendo che storia umana è tra l'altro la storia della lotta contro le paure che ci caratterizzano come umani.
Riflettiamo. Perché chi dichiara di non aver paura dice di non temere il "morire" e non parla invece della "morte"? "Morte" o "morire": ecco la prima notazione. Chi ha paura dice di aver paura della morte, chi non ha paura dice di non aver paura di morire. Non sarà che stanno parlando di due minacce diverse?
Secondo la Tanatologia moderna, si tratta proprio di due diversi concetti: la morte è ciò che c'è quando non c'è più la vita; il morire è la fase terminale della vita.
Quando si parla di morte e di paura della morte si può quindi parlare o del dopo-vita o dell'ultima fase della vita: si tratterebbe quindi di due paure diverse, la paura di ciò che ci aspetta dopo e la paura di arrivarci in modo invivibile.
Possiamo ora fare un passo avanti: se pensiamo a quello che ci aspetta dopo la vita ne abbiamo tutti paura; se pensiamo di morire male ne abbiamo tutti paura.
La paura ci accomuna, ma per alcuni è peggiore la paura dell'aldilà e per altri la paura della sofferenza senza sbocco della fase terminale.
La storia degli atteggiamenti nei confronti della morte e l'assistenza dei morenti (la Tanatologia) hanno dimostrato che, a seconda delle epoche e degli individui, prevale ora la paura della morte (cioè dell'aldilà della vita) e ora la paura del morire (cioè la paura di una brutta fase terminale). Significa che può prevalere la paura che oltre la vita non ci sia niente, cioè che la vita finisca definitivamente, oppure la paura che l'ultima fase della vita sia una terribile agonia, cioè un dolore che è insopportabile o che non vale la pena di sopportare perché il nulla certo che ci aspetta lo rende insensato.
Per chi ha paura della morte è insopportabile l'idea che tutto finisca, chi pensa al morire accetta che tutto finisca e proprio per questo non può sopportare oltre un certo limite (cioè quando non serve a niente) il dolore del vivere.
Chi ha paura della morte ha bisogno della speranza di poter ancora vivere e ha bisogno di vivere per poter continuare a sperare: "finché c'è vita c'è speranza" è il suo motto! Chi ha paura del morire ha bisogno di sapere che morirà senza il dolore della fine, cioè senza il dolore più insensato e insopportabile per chi ha accettato la necessità della morte come definitivo nulla. Ci sono ovviamente anche coloro che condividono entrambe le paure e coloro che tentano di sfuggire all'alternativa tra l'una e l'altra. Tutto dipende da un intreccio complesso, da individuare nella biografia di ciascuno, tra le influenze esercitate dalla cultura nella quale si vive attraverso l'educazione e il processo di umanizzazione che ogni individuo percorre in tutto o in parte a cominciare dal livello biologico in cui si è alla nascita.
Nella cultura occidentale tende a prevalere la paura del morire tanto più quanto più l'individuo si identifica con l'educazione che riceve secondo la quale l'essere umano è un essere biologico che appartiene al regno animale e ne condivide le finalità (il benessere attraverso l'adattamento nell'ambiente) sebbene le persegua con il di più di cervello e di linguaggio che l'evoluzione gli ha regalato.
In Italia la paura della morte come paura dell'aldilà ereditata dalla cultura cristiana tende a permanere accanto alla paura del dolore terminale indotta dal progressivo prevalere nelle coscienze attraverso l'educazione moderna che la morte va accettata come fatto biologico e che l'unica cosa che si può fare è quella di cercare di vivere bene fino all'ultimo istante di vita.
Le dimostrazioni di questo "pareggio" (forte come la paura di morire è la paura della morte) sono fondamentalmente due: il non voler parlare della morte nemmeno quando essa è imminente, per poter così continuare a sperare di salvarsi, accanto al gradimento delle cure palliative nelle fasi terminali della malattie; la difficoltà di decidere se la vita vale ancora la pena di esser vissuta quando è ormai solo sofferenza o se è meglio morire per non soffrire; difficoltà che è alla base della divisione netta e paritaria dell'anima italica sul problema dell'eutanasia.
La situazione è ovviamente in evoluzione e potenti forze culturali combattono per spingere la situazione verso il prevalere dell'antropologia della paura della morte sull'antropologia della paura del morire e viceversa. Questa guerra dall'esito incerto si combatte nella biologia, nella medicina, nella filosofia, nella bioetica, nella politica. Stando così le cose, l'Umanità del futuro dipende fondamentalmente dall'esito di questa battaglia: se prevarrà la paura della morte e di conseguenza l'unica difesa possibile per l'uomo, cioè la speranza di prolungare la vita in altre vite; oppure se prevarrà la paura del morire e di conseguenza la ricerca del benessere finché si è vivi e la ricerca della morte quando non c'è più sufficiente benessere.
Ma c'è per fortuna nella Umanità un'altra tendenza, la tendenza a ricercare una via alternativa sia al prevalere della paura della morte che al prevalere della paura del morire. Si tratta della possibilità umana di trasformare la paura della morte e del morire in qualcosa di positivo secondo due diversi orientamenti:
I. nel senso di Prometeo che dicendo di aver portato all'uomo il fuoco e "le vane speranze" che derivano dall'ignorare il momento della morte fa intravedere la possibilità di vincere insieme e insieme superare la paura della morte e la paura del morire: la paura della morte introducendo tra l'uomo e la sua morte una distanza abissale attraverso l'ignoranza del momento della morte, che dà una vana speranza di non morire che può essere prolungata fino all'ultimo istante; la paura del morire indicando all'uomo la via della tecnologia (il fuoco, o l'energia come si direbbe oggi) che non solo è sedazione del dolore, ma anche la possibilità di vincere la morte trasformando l'uomo in una macchina i cui pezzi siano tutti sostituibili;
II. nel senso di Levinas(1) per il quale nella morte le emozioni, e quindi anche la paura, sono "emozioni nell'ignoto". La paura della morte è la paura di qualcosa che non si conosce, qualcosa di ignoto ("un'emozione nell'ignoto"), cioè né il nulla che si può accettare o temere, né l'essere che si può solo desiderare o solo vivere. In questo senso chi ha paura del nulla, cioè della morte, non sa più di cosa ha paura, come chi non ne ha paura non ne ha paura perché ne ha fatto un nulla di cui non può essere certo.
La paura della morte si può vincere ora, come per Prometeo, perché è abissale la distanza che da essa ci separa, ma, a differenza della proposta di Prometeo, non è una distanza conseguita tramite l'inganno delle vane speranze: ignoriamo il quando della morte e quindi possiamo tenere sempre a distanza la paura non perché ignoriamo il giorno della morte e coltiviamo così la vana speranza di non morire, ma perché il tempo che il pensiero della morte introduce nella nostra vita è un tempo infinito: se pensiamo alla morte e ignoriamo quando sarà (cosa sarà, perché sarà, ...) ci troviamo in un'altra dimensione del tempo, avvertiamo di essere immersi nell'Infinito e ci sentiamo eterni (eterni, non immortali). In questo senso è il mistero della morte che introduce i mortali nell'eternità.
La paura del morire d'altra parte (cioè del dolore terminale), si può vincere non macchinizzandosi ma umanizzandosi, cioè tenendo conto del fatto che la morte dell'individuo può non uccidere l'umanità: da vivi nessuno ci può sostituire, da morti invece qualcuno può vivere per noi, si può sostituire a noi e farci ancora vivere. Coloro che anche da vivi hanno vissuto per noi e da morti non possono né dimenticarci né tralasciare di vivere anche per noi perché continuano a desiderarci e ad amarci. Sapendo questo il dolore terminale non sarà più insensato perché ci sarà da parte del morente la possibilità di soffrirlo, nel morire, per chi resta: per lasciar loro non la rassegnazione sull'insensatezza del dolore finale, ma il senso che riguarda anche gli altri di chi non lascia loro il rifiuto della vita uccidendosi per non soffrire, ma la dimostrazione che si può assumere la responsabilità di vivere ciò che ci spetta vivere anche per gli altri che restano, per lasciarli nell'unica condizione che li può consolare della perdita subita e poter così vivere anche per chi non c'è più.
Francesco Campione
1. La nota fa riferimento all'ultima fatica letteraria di Francesco Campione - CONTRO LA MORTE, Clueb, Bologna, 2003 - il cui filo conduttore è, come dichiarato dallo stesso Autore, l'applicazione alla Tanatologia del pensiero di Levinas.
La morte difficile. Oggi concepita come orrore, assurdità, sofferenza inutile e penosa, come mancanza di vita, la cancellazione che ci si augura sia rapida e indolore. In che modo affrontare l'ultima delle esperienza umane? Come assistere e vivere il percorso verso la non-vita? Quale ruolo attribuire alla morte nella visione scandalosa della sofferenza? Quando rassegnarsi all'idea, quando accanirsi per combatterla? Come rapportarsi al morente dal punto di vista psicologico, etico, umano?
Un libro che cerca di sondare le risposte a queste e ad altre domande, ponendosi lo scopo della formazione psicologica ed etica di coloro che, per motivi sanitari o personali, assistono i morenti. La psicologia e l'etica del rapporto medico-morente è sviluppata in un confronto con la letteratura e con l'esperienza clinica internazionale.
La tesi originale dell'Autore si fonda sulla immedesimazione con la condizione esistenziale di ciascun morente per riscoprire il senso della lotta contro la morte, per ritrovare l'essenza della vita proprio quando viene a mancare, quando se ne annuncia la fine.
Una ricerca che attraverso l'enunciazione delle principali teorie sulla "pacificazione" fra l'uomo e la morte (E. Kubler-Ross, M. De Hennezel, H. Jonas, ...) e la descrizione di esperienze cliniche e personali, affronta la dimensione psicologica, scientifica, umana, religiosa delle principali questioni che da sempre attendono l'uomo, offrendo una solida base per il personale medico e un valido sostegno a tutti coloro che accompagnano i propri cari verso la fine.
I ritratti in chiaroscuro delle "facce contro la morte", i volti che combattono contro ogni destino, ricordano che la mortalità appartiene all'uomo da sempre e che sempre gli apparterrà, ritrovando le ragioni per lottare ogni volta di nuovo, poiché ognuno è non solo "una vita", ma "la vita". In ogni vita la vita intera.