- n. 4 - Aprile 2009
- Cultura
Le opere di Regina José Galindo
Da alcuni anni Regina José Galindo e le sue sconvolgenti rappresentazioni in cui denuncia i drammi vissuti dal popolo guatemalteco e ritrae una difficile e combattuta società civile sono divenute immediatamente note presso un vasto pubblico.
Vera e propria esponente di un’arte “della ripetizione” in senso deleuzeano, Regina José Galindo ritorna nei luoghi che hanno visto il pubblico testimone del dramma della storia e, attraverso il suo corpo, “ripete” azioni. La ripetizione non coincide mai con il ritorno dell’identico, ma restituisce la possibilità a ciò che è stato: non ripresenta il passato come tale, ma lo rende ancora possibile. Per questo non la rappresentazione ma una sorta di teatro della ripetizione è al centro dei rituali che l’artista mette in scena: cerimonie singolari, azioni immediate, recitate, messe in atto hic et nunc, ripetute in un movimento reale attraverso il quale la replica non coincide mai con il ritorno del medesimo atto, ma rende il passato come un qualcosa che può ancora realizzarsi.
Come il teatro, che costituisce la matrice di tutte le forme spettacolari dirette o mediate, affonda le radici in quella esperienza antropologica originaria che è il “rito”, fondamentale esigenza di espressione dell’essere umano, così l’artista guatemalteca, attraverso “una azione rituale” che è in grado di coniugare lo spazio del proprio corpo con quello sociale, pone in essere - ripetendole - le “azioni” di coloro che sono stati testimoni del dramma della storia di quei luoghi.
La mattina del 23 luglio 2003 Regina José Galindo, vestita con un abito da sera nero, attraversa a piedi nudi Ciudad de Guatemala con un bacile bianco tra le braccia: dalla Corte Costituzionale del Palazzo Nazionale avanza tra la gente con lo sguardo chino, fisso sulla bacinella riempita di sangue umano, camminando a passo cadenzato per sessanta minuti. Quando sosta immerge i piedi nel recipiente per imprimere sulla strada i segni del proprio passaggio come tracce ancora fresche di un dramma avvenuto, materializzando - proprio dietro quelle orme insanguinate - i fantasmi delle vittime della guerra civile e della repressione degli anni ottanta ed evidenziando i luoghi della città da essi contaminati. In solitudine, attraverso questa estrema e azzardata azione pubblica, Regina José Galindo compie un silenzioso e duro atto di denuncia contro la ricandidatura presidenziale, appena validata, del generale Efraín Ríos Montt, ex dittatore sanguinario ed esponente centrale del Fronte Repubblicano Guatemalteco.

L’atto doloroso di Regina chiamato ¿Quién puede borrar las huellas? [chi può cancellare le impronte?] diviene immediatamente simbolo della resistenza personale e ritratto collettivo di una società civile priva di tutele e di certezze. Il procedere come azione rituale, le impronte suggellate con il sangue - segno indelebile di persecuzioni, umiliazioni, sconfitte, morte - trasformano il luogo in uno spazio performativo, dove affiorano identità invisibili e dove viene data voce a ciò che è indicibile. La strada si trasforma in uno spazio nel quale l’intervento artistico non serve solo a denunciare ciò che l’istituzione mantiene ancora nascosto, ma si pone come dichiarazione di giustizia indipendente dall’autorità dello stato, ponendo così le basi per un processo di raggiungimento dell’imparzialità diretta, scevra da condizionamenti e da mediazioni.
Al centro di tutto il lavoro della Galindo vi è il corpo, la sua persona, che soffre, che rivendica e che protesta.
Senza la comprensione della ripetizione, della “azione rituale”, non possono essere interpretate in maniera esauriente opere come Golpes [colpi], performance sonora in cui l’artista rinchiusa in un cubo, che amplifica il suono all’esterno, si infligge un colpo per ogni donna assassinata in Guatemala dal primo gennaio al 9 giugno 2005 (giorno dell’ “azione”) o Himenoplastia [imenoplastica], performance sul tema della verginità come imposizione istituzionale con cui l’artista ha vinto il Leone d’Oro della cinquantunesima Biennale d’Arte di Venezia rappresentando un intervento di ricostruzione del proprio imene proiettato in video.
Nel 2006 in Tanatosterapia [tanatoterapia] una truccatrice di cadaveri di una agenzia funebre “ritocca” il viso di Regina, una “azione” che fa esplicito riferimento alle violenze perpetrate. In paesi come il Guatemala - denuncia Regina José Galindo - la morte, succedendo in ogni istante, ha perso le caratteristiche di rituale supremo trasformandosi in un atto volgare e quotidiano che accade da vicino, dietro l’angolo di casa, senza maschera né ornamenti, frutto di violenza e di sangue, capace solo di suscitare in chi la osserva un senso di impotenza e di smarrimento.
Se da un lato il carattere intrinsecamente politico del lavoro non è finalizzato alla sola presentazione di un discorso in genere o ad una operazione di denuncia, dall’altro il carattere poetico di tutte le opere, che Regina definisce “
atti di psicomagia”, ne sottolineano la sofferenza e la forte carica emotiva.
Maria Angela Gelati