- n. 11 - Novembre 2011
- Fiere
A Chicago dal 24 al 26 ottobre
NFDA 2011
Accade, talvolta, che le belle sorprese giungano quando uno meno se le aspetta. Così è stato la sera antecedente l’apertura dell’annuale esposizione funeraria della NFDA tenutasi quest’anno nella bella e ventosa Chicago.
Avevamo finito di allestire lo stand Tanexpo nell’impressionante complesso espositivo del Mc Cormick Center e, approfittando del tempo stranamente bello e mite per la stagione in corso, andavamo passeggiando, all’imbrunire, per il “Loop”. Così viene definito il quartiere della metropoli nordamericana adagiata sulla sponda occidentale del lago Michigan (la cui superficie, merita segnalarlo, corrisponde grossomodo a quella delle regioni di Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli-Venezia Giulia riunite) delimitato dal quell’anello (“loop”, da cui il termine aeronautico “looping” che indica la ben nota figura acrobatica) descritto da “The El”, o “L”, e cioè la linea sopraelevata di metropolitana, arrugginita e traballante, creata nel 1893 in occasione della World Columbia Exposition che ancor oggi contribuisce a rendere quella zona suggestiva ed avvincente. Non a caso quando, anni orsono, era stata lanciata l’idea di sopprimerla (gli imprenditori immobiliari già vedevano montagne di dollari sostituire, sotto forma di palazzi, i vecchi binari) vi era stato un sollevamento popolare e gli edili locali avevano definitivamente interrato, a furor di popolo, il progetto ventilato. Essa quindi continua ad infilarsi, imperterrita e sferragliante, tra i building del cuore cittadino che anche chi non è stato a Chicago conosce per averli visti decine di volte in film (vedi Harrison Ford, nato lì, ne “Il Fuggitivo”) o in serie televisive come “E.R. – Medici in prima linea” che si svolge nell’ambito del policlinico di Chicago. Così, come tante volte in passato, andavamo bighellonando contemplando, con la stessa amorosa meraviglia di sempre, gli edifici dei diversi architetti che hanno, da un secolo e mezzo in qua (dopo il grande incendio del 1871), forgiato una città che chi si interessa, anche marginalmente, di architettura non può, prima o dopo, non visitare. Le tracce lasciate dai vari Louis Sullivan, Franck Lloyd Wright o Mies Van der Rohe sono indelebili e fanno, a giusto titolo, parte del patrimonio culturale dell’umanità. Arrivati, ad un certo punto, all’angolo di West Adams Street decidemmo, passando sotto la “L”, di dirigerci, vittime di una struggente nostalgia, verso il numero 16 per dare un’occhiata a ciò che era diventata la “Berghoff”, una vecchia birreria della cui chiusura definitiva avevamo avuto sentore pochi mesi dopo il nostro precedente viaggio nella “windy city” (la città del vento, non male per un triestino!). La notizia ci aveva rattristato e la nostra unica consolazione risiedeva nel possesso di un boccale di birra di quello storico locale. Nato nel 1898 come piccolo saloon, si era progressivamente affermato come uno dei luoghi più famosi di Chicago al punto di essere stato il primo a ricevere la licenza per la mescita di alcoolici alla fine del proibizionismo. Caratterizzata da una cucina di stampo tedesco e da birre di tipo “Dortmund”, la Berghoff era diventata, nel corso dei diversi viaggi che avevamo fatto in quella città, una tappa obbligata quasi quotidiana. Una specie di ritorno a casa. Un po’ come quando, a Trieste, non ci si stanca mai di andare, in via Cassa di Risparmio, “da Pepi” (oggetto, lo scorso anno, di una recensione importantissima sul New York Times) per deliziarsi di una scorpacciata di bolliti di maiale (con la divina “porzina” al vertice) assieme a salsicce, kren, crauti ed evidentemente birra a flotti per accompagnare il tutto. Mesti andavamo, dunque, alla ricerca del tempo andato quando l’inconfondibile insegna della Berghoff si presentò, da lontano, ai nostri occhi, sempre allo stesso posto anche se non illuminata. Ne traemmo la conclusione che, come era già accaduto alla birreria Forst della capitale giuliana rimasta chiusa per moltissimi anni ed ora restituita agli antichi splendori, anche in questo caso il luogo era stato abbandonato in attesa di un compratore che ne avrebbe fatto una agenzia bancaria o la boutique di una franchise alla moda. Cosa peraltro alquanto strana essendo gli americani piuttosto reattivi ad ogni opportunità di business, soprattutto in una posizione privilegiata come quella di cui parliamo. Giunti all’ingresso ci rendemmo immediatamente conto che tutto era chiuso, ma che l’interno, visibile attraverso le finestre ben pulite, era, pur nella penombra della sera incipiente, bello e luccicante come sempre. Quasi increduli cercammo altre indicazioni. L’orario di apertura indicava che la domenica il locale era chiuso. Eravamo di domenica e quindi era normale che lo fosse. Era anche, quindi, normale che l’insegna non fosse illuminata. Una certa logica cominciava ad imporsi. Un dubbio gioioso ci spinse verso l’antistante CVS (una farmacia della catena concorrente alla Walgreen) che stava chiudendo. Al primo addetto incontrato chiedemmo se la birreria fosse ancora aperta. Ci rispose che sì, che tutto era normale, che non c’erano problemi e che non era affatto logico che non fosse aperta il giorno del Signore. Ci venne quasi la voglia di abbracciarlo come si farebbe con qualcuno che ti avesse riportato qualcosa di caro che pensavi di aver perduto per sempre. Ci sono momenti, nella vita di una persona, dei quali si dice che ti hanno fatto perdere “x” mesi (giorni, anni,...) di vita. Ce ne sono altri, e questo è stato uno di quelli, dei quali si può ragionevolmente dire che qualcosa forse, in quell’ottica, hai guadagnato. Soprattutto il giorno dopo quando raggianti siamo entrati a fine giornata (l’insegna illuminata somigliava stranamente, da lontano, ad una stella cometa) per ritrovare, avvicinandoci al bancone, Carlos, di Aguascalientes, e Hector, di Acapulco, due vecchie conoscenze messicane (al secondo ci accomuna una antica e indefettibile fede rossonera) che si sono affrettati, sorridenti come sempre e, osiamo sperare, contenti di rivederci, a spillarci una prima pinta di “amber” in attesa di presentarci un “Reuben on rye”, un sandwich favoloso a base di corned beef (carne di manzo bollita e finemente affettata; nulla, ma proprio nulla, a che vedere con le famose scatole di corned beef dei supermercati), crauti, bacon croccante, senape, cumino. Qualcosa di assolutamente eccezionale!
Per la cronaca, una vecchia disputa esiste a proposito della nascita del “Reuben”. Alcuni lo fanno venire alla luce nel 1914 quando Arthur Reuben, titolare dello scomparso Reuben restaurant, un delicatessen nella 58th street di New York, l’avrebbe creato per l’attrice Annette Seelos, presunta interprete di un ruolo femminile principale in un film muto, peraltro mai rinvenuto, di Charlie Chaplin. Un’altra versione vuole che esso sia stato immaginato tra il 1920 ed il 1935 da Reuben Key (diminutivo di Kulakofsky), un salumaio di Omaha (Nebraska), durante la partita di poker settimanale che lui ed i suoi amici (la combriccola si era autonominata il committee) erano usi organizzare nel Blackstone Hotel appartenente ad uno di loro, Charles Schimmel, che avrebbe introdotto la pietanza nel menu dell’albergo. Comunque stiano le cose rimane il fatto che il “Reuben” fa parte, come la pizza per l’Italia, di una certa idea dell’America. Tanto per chiudere la storiella, vera, del Viaggiatore e della Berghoff preciseremo, da quanto riferitoci dagli amici camerieri messicani, che in realtà la chiusura durò pochi mesi. Vi era stato un contenzioso sindacale sfociato nell’obbligo per il titolare di cedere il locale. Cosa che fece vendendolo alla figlia. Tutto come prima, quindi, per la più grande soddisfazione degli amatori.
Lo stesso non si può dire della NFDA. Dopo alcuni anni, corrispondenti al periodo più nero della crisi, di relativa stasi, le cose sembrano raddrizzarsi per i nostri amici d’oltre Atlantico, Deborah Andres in testa. Anche se siamo lontani dalle superfici espositive faraoniche degli anni ‘90 del secolo scorso e dai ricevimenti che accoglievano nelle ballrooms dei grandi alberghi migliaia di persone con tanto di orchestrine e chioschi di cibo di quasi tutti i paesi del mondo, abbiamo tuttavia osservato un forte aumento dei visitatori, il che ha rassicurato i 400 espositori presenti. Forse ciò è stato anche dovuto al fatto che quest’anno la NFDA si è unita alla CANA (Associazione Cremazionista del Nord America) e che la manifestazione comune ha creato sinergie. Non sarà così l’anno prossimo quando NFDA andrà a Charlotte (North Carolina), mentre CANA sarà in Canada, in quella Vancouver che, dopo l’afflusso imponente di cinesi danarosi che avevano abbandonato Hong Kong e Macao al momento del loro ritorno alla Cina, molti chiamano ormai “Hong-Kouver”. Questa temporanea unione sta anche, forse, ad indicare che negli USA, come un po’ dappertutto per le diverse e ben note ragioni (ideologiche, filosofiche, logistiche, ecologiche, economiche,...), la tendenza verso la cremazione appare inarrestabile. La prova risiede non solo nel fatto che uno dei più grandi operatori mondiali del settore, l’olandese Facultatieve Technologies, capeggiata dal gioviale J.M.H.J. Keizer, fosse lo sponsor principale della CANA, ma anche nella presenza di molti produttori di forni, alcuni dei quali giunti in fiera per la prima volta. Evidentemente tutto quello che gravita attorno alla cremazione ha avuto un ruolo preponderante a livello dei prodotti esposti. Ad iniziare dalle urne cinerarie di ogni tipo e materiale tra le quali si sono distinte quelle della ABC di Prato con in testa Luigi Catalano. Molto belle anche le urne giapponesi della Tomoetogyo il cui presidente Joji Kani ci ha confermato di pensare molto seriamente di partecipare a Tanexpo, consapevole del fatto che l’attuale mercato italiano delle urne è piuttosto limitato, ma anche perfettamente al corrente che l’importante afflusso a Bologna di visitatori da tutto il mondo non può che aprirgli prospettive ottimali di business. Tra le urne curiose citeremo quelle a forma di sacco da golf per gli amatori dei fairways o quelle a stivaletto con tanto di lazo e Stetson (il cappello) per i cow-boys. Rimanendo in tema western ci piace ricordare una bara della Last Rodeo Caskets di El Paso in Texas, rivestita di pelli di mucca. A proposito di bare abbiamo avuto il piacere di rivedere Francesco Forgione, sempre attivo ed in compagnia della sua distributrice per il Sud America. Batesville, con uno stand come sempre frequentatissimo, ha costituito un polo di attrazione: Terry Walker, il responsabile internazionale, ci ha confermato che la sua azienda, che fa parte del gigantesco gruppo Hillenbrand Inc. attivo in diversi settori non solo mortuari, guarda con particolare interesse verso Bologna. Non distante da Batesville (che è anche il nome della cittadina dell’Indiana dove si trova l’azienda) abbiamo conosciuto la Genesis, di Indianapolis, il cui Executive Director, Sales Mgmt & Product Manager non è altri che l’amico Scott Billingsley che ci aveva accolti, in passato, sontuosamente a Batesville in veste di manager Internazionale dell’azienda omonima la cui produzione sfiora il milione di pezzi all’anno. Oggi, dopo un rapido passaggio da Wilbert, Scott ha ritrovato il suo prodotto più amato, il casket, essendo non poco fiero di presentarci le realizzazioni della sua azienda che appartiene al gruppo spagnolo Gestamp Automociòn, uno dei massimi attori mondiali nella costruzione di parti metalliche per l’industria automobilistica. “Che nesso c’è tra questa ed i cofani?”, si potrebbe chiedere qualcuno. Il nesso c’è, eccome! Basta pensare che l’ottanta-novanta percento del mercato statunitense è occupato dai cofani metallici per comprendere che la tecnologia del lavoro dei metalli è praticamente la stessa. Anche se accanto ai cofani metallici tradizionali abbiamo ammirato uno splendido pezzo in legno massiccio proposto al prezzo di 16.000 USD.
Visto che si parla di metalli dobbiamo citare la presenza della Spencer di Collecchio il cui stand, presidiato dal Direttore Commerciale Cialdella, ha visto, secondo le informazioni da lui stesso forniteci, un buon afflusso di visitatori.
Ritornando al trattamento delle salme si parla sempre di più di idrolisi alcalina. Molto recentemente ci sono stati congressi e conferenze un po’ dappertutto su questo tema. L’ultima, prima di Chicago, si era tenuta in Spagna. Se ne è riparlato in Nord America e nel corso di una conversazione privata con un personaggio di grande spicco del mondo funerario europeo, che non menzioneremo per ragioni di evidente riservatezza, costui ci ha dichiarato che personalmente ritiene che a tale tecnica sia riservato un grande futuro per ragioni che sarebbe troppo lungo qui esporre. A suo autorevole avviso si tratta soprattutto di rimuovere l’ostacolo psicologico non indifferente che può presentarsi a chi si avvicina a tale procedimento per certi aspetti comparabile a quella che ha potuto essere, ad un certo momento, la reticenza al pensiero di fare del proprio corpo un mucchietto di ceneri. L’azienda più in vista a Chicago è stata la Bio-Response Solutions di Pittsburgh, Pennsylvania, la stessa città dove si trova il gruppo Matthews. Di questo abbiamo avuto il piacere di incontrare Joe Bartolacci e Fabrizio Giust della Gem di Udine che, come si sa, del gruppo Matthews fa parte.
Abbiamo anche rivisto con piacere Dave De Carlo, già Presidente della Divisione Bronzi di Matthews ed attualmente membro del Board of Directors della Carriage Services di Houston in Texas. Ritornando ai nostri compatrioti, come non parlare (bene!) della Life Celebrating di Maniago, in Friuli, che propone al mondo funerario stupende realizzazioni grafiche (album commemorativi) per onorare, più che la memoria, la vita dei defunti. Una bella e giovane équipe che, già affermatasi con lo stesso concept in altri settori, sta ampliando i propri interessi avvicinandosi ad un mondo nel quale, nonostante i molti pregiudizi esistenti, la qualità, ché di questo si tratta, finisce sempre con il ripagare chi intraprende su basi sane. E ci pare essere il caso di Francesca Dal Mas e colleghi. Speriamo di vederli a Bologna dove, ne siamo sicuri, il successo per i loro prodotti sarà puntuale all’appuntamento.
Tra le diverse proposte legate all’informatica e ad internet, una ci è sembrata particolarmente attraente: il cimitero virtuale “i-postmortem” che ci è stato illustrato con dovizia di dettagli da Jacques Mechelany. Questo signore, che contiamo di rivedere a Bologna, ha un background di tutto rispetto. Francese, laureato in legge ed in economia, ha operato nel mondo intero, ma soprattutto a Ginevra dove è stato amministratore delegato della Bank of China. Egli possiede, soprattutto, il diploma di una delle “Grandes Ecoles” più prestigiose di Francia: l’Institut d’Etudes Politiques de Paris, sezione Eco-Fi (Economie et Finance), più comunemente conosciuto come “Sciences-Po Paris”. Tanto per citare un paio degli ex allievi più noti ci limiteremo a ricordare Valery Giscard d’Estaing e Jacques Chirac, due degli ultimi quattro presidenti della repubblica francese. È oltremodo importante precisare “Paris” perché vi sono altri “Sciences-Po” in Francia, a Bordeaux, Lille, Aix en Provence, Lyon, … . Nessuno gode però dell’aura, quasi mitica, della vecchia istituzione di rue Saint Guillaume. Ne sappiamo qualcosa personalmente avendo in casa qualcuno che da quelle auguste mura è uscito già da un certo numero di anni. Se Jacques Mechelany ha lasciato dietro di sé alcuni decenni di alta dirigenza bancaria per lanciarsi in tale impresa lo avrà di certo fatto a ragion veduta. Il suo progetto ci è parso estremamente interessante da diversi punti di vista ed è per questo che contiamo di averlo con noi a Bologna, tanto più che egli stesso ci ha detto che moltissime richieste di informazioni gli giungono proprio dall’Italia. Pare anche che la stampa nazionale italiana ne abbia già ampiamente parlato.
Paradossi del nostro Paese dove, accanto ad una legislazione arcaica, esiste un bisogno di novità che si manifesta nel momento più inatteso. Forse si può coltivare ancora qualche speranza nonostante la penisola sia piena zeppa più che dei famosi “furbetti del quartierino” dei “furboni dello stivalone”. Di coloro cioè che si fanno in quattro per “trombare” il prossimo, a cominciare da quello che è il prossimo più prossimo e cioè lo Stato, prima vittima dell’imponente evasione fiscale diventata ormai vero e proprio sport nazionale come e più della pedata alla vescica gonfiata. Consoliamoci come possiamo con i varietà televisivi, i concorsi di miss Italia, abbruttimento supremo della femminilità, i reality show o, somma vergogna, i bambini che cantano. Non parlo di quelli, carini ed innocenti, dello Zecchino d’Oro, ma di quelli che, scimmiette giulive e prepuberi, si danno arie da divi dello spettacolo a dodici anni gorgheggiando testi dove amori struggenti, tradimenti, passioni e via dicendo la fanno da padroni. A dieci, dodici anni. Magari saremo fuori tempo massimo, ma siamo ben contenti di esserlo come il povero Malabrocca che chi ha seguito il ciclismo mezzo secolo fa ben ricorda. Meglio “matusa” con tutto ciò che ne consegue, per legge naturale, che “rinco” anzitempo per la stupidità del mondo in cui viviamo e, più precisamente, per ciò che è dei pargoletti canterini, di genitori semi incoscienti che permettono che le loro progeniture si consacrino a tali idiozie.
Ritornando, per finire, alla NFDA ometteremo, una tantum, di citare gli innumerevoli amici e conoscenti provenienti da tutto il mondo che abbiamo avuto il piacere di rivedere. Basta prendere qualche articolo precedente e ci sono tutti o quasi. Non possiamo però astenerci dall’elogiare Debbie Andres per l’organizzazione generale, curatissima, dell’evento e per la disponibilità dimostrata in ogni frangente pur essendo sollecitata, per una ragione o per l’altra, da tutte le parti. Molto ben riuscita la serata del Presidente eletto nella “House of Blues” e, soprattutto, quella riservata agli ospiti, espositori e visitatori, internazionali. Sono momenti di rara intensità nei quali tutto favorisce la nascita di nuovi legami ed il consolidamento di vecchi. Uno scambio di culture, di esperienze, professionali ma anche personali, estremamente valorizzante che non ci fa rimpiangere di aver da sempre scelto la strada delle attività internazionali. Del resto, nati e cresciuti in una città di per sé stessa cosmopolita ed avendo visto già da bambini le navi (che noi chiamavamo i “vapori”) partire in tutte le direzioni del mondo (Africa, Asia, Americhe,...), non deve meravigliare che le cose abbiano preso una tale piega. Non ce ne lamentiamo. Anzi!
Prossima tappa Parigi. Si gioca in casa, per chi scrive, con la speranza che questa volta non ci siano quegli scioperi che in passato hanno rovinato la festa. Tanexpo è pronta per le prove generali prima del gran ballo di fine marzo 2012. Saluti a tutti!
Il Viaggiatore