La Grande Mela non accoglie né conforta: la realtà di
Scorsese è l’America criminale e violenta del post Vietnam popolata da personaggi sbandati e disturbati. Spazzatura. È la New York filtrata attraverso il finestrino di un taxi, riflessa nello specchietto retrovisore, tratteggiata dalle luci di un cinema porno e dal suono dei tacchi delle prostitute sui marciapiedi. O meglio: è il ritratto di una società decadente e degradata vista dagli occhi di un marine in congedo con, nell’ordine, una ossessione per la pornografia (ma solo per passare il tempo), problemi di alcol e di insonnia, manie psicotiche autodistruttive.
Travis Bickle (Robert De Niro) è l’antieroe in una città di falsi miti. Metafora vivente della solitudine, guida un taxi e osserva silenzioso la vita che scorre. Da buon alienato, non riesce a relazionarsi con il mondo e non rispetta le convenzioni sociali: non ascolta alcun tipo di musica, risponde a monosillabi se interpellato, al primo appuntamento porta l’adorabile
Betsy (Cybill Shepherd) in un cinema a luci rosse (stupendosi della reazione turbata di lei). Una giostra di personaggi altrettanto soli e altrettanto alienati affolla il sedile posteriore del suo taxi. Sono semplici meteore nella sua vita da emarginato, ma scandiscono un peregrinare sottolineato dalle riflessioni in
voice over (che consentono una completa immedesimazione spettatore-attore) e accompagnato dalle calde note jazz del genio
Bernard Hermann (nominato agli Oscar per la miglior colonna sonora).
Taxi Driver si compone di immagini e di suoni, più che di dialoghi. Travis non parla se non a se stesso. La sua solitudine però, il suo isolamento forzato e allo stesso tempo volontario, raggiunge un punto di non ritorno che lo fa precipitare verticalmente nella follia: è troppo debole il filo che lo tiene ancorato alla realtà. Si improvvisa giustiziere della notte senza paura, ma non senza macchia, e con folle disciplina “pulisce” New York dalla “spazzatura” che la deturpa: ladri, pusher, magnaccia, assassini.