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I morti comunicano con i vivi?

La morte non recide definitivamente i legami:  tra sogni, percezioni e preghiere gli italiani affermano di parlare con i propri defunti.

«Mio caro, prenditi cura della nostra Gigi. Io farò lo stesso con Nati, Bibi e Coco. Siamo ancora una squadra. La migliore».
È con queste parole che Vanessa Bryant concludeva il discorso funebre per il marito Kobe, il celebre cestista americano - ma così legato al nostro Paese - rimasto vittima di un tragico incidente, e per la figlia Gianna Maria. Rivolgersi direttamente a un defunto, parlare con lui, percepirne la presenza, richiederne l’intervento, immaginarlo nell’aldilà, addirittura sentirsi toccare o averne la visione, sono esperienze tutt’altro che circoscritte a momenti rituali come quello descritto, né sono prerogativa di modeste minoranze o il frutto di una qualche patologia. La morte, infatti, non sembra recidere definitivamente i legami interpersonali.

Un precedente articolo apparso su questa rivista si concentrava sulla diffusione delle credenze nell’aldilà. Ma cosa sappiamo, invece, dei comportamenti concreti, delle pratiche connesse all’aldilà, dei rapporti tra i vivi e i morti? La ricerca sulle pratiche, i riti e le credenze che circondano la morte in Italia - i cui risultati sono presentati nel volume “Morire all’italiana” (Il Mulino, 2022) a cui è stato già fatto riferimento in articoli precedenti - ha analizzato molte possibili forme che queste relazioni possono assumere. Una parte di queste hanno un fondamento religioso. Si tratta di comportamenti tutt’altro che marginali perché, per limitarsi a un esempio, ben il 72% degli italiani dichiara di avere pregato per una persona cara defunta. È un valore decisamente elevato, certamente superiore a quello di coloro che si definiscono credenti e praticanti, e che richiede, quindi, il contributo anche dei non credenti. Come avviene in molti altri campi della vita sociale, anche nel caso della morte, quindi, siamo di fronte a contraddizioni, fenomeni imprevisti e inattesi, scarti anche consistenti tra ciò in cui crediamo, o pensiamo di credere, e ciò che effettivamente facciamo nella concretezza della nostra vita.
Ma spostiamoci dal campo delle pratiche connesse alla religione a forme più dirette di rapporti tra i vivi e i morti. Tra le molte oggetto di interesse della ricerca citata ne selezioniamo, per ragioni di spazio, solo alcune. La forma più diffusa di rapporto tra i vivi e i morti riguarda i sogni. Sognare una persona che non c’è più non è frutto di una scelta. È piuttosto un evento che capita, indipendentemente dalla nostra volontà. È però un’esperienza che riguarda una quota decisamente consistente di persone: ben tre su quattro, il 75%. I morti possono presentarsi in sogno per molte ragioni: per rassicurare i vivi sul proprio stato nell’aldilà, per annunciare tanto notizie fauste – come nascite o guarigioni – quanto infauste – come malattie o nuovi decessi. I morti possono rimproverare i vivi di comportamenti censurabili di questi ultimi, magari verso qualche altro parente. Se una parte degli italiani interpreta questi sogni come effettive espressioni del defunto, delle sue opinioni, necessità, pensieri, per un’altra parte tali sogni vanno piuttosto interpretati come espressioni di desideri, di paure, di angosce di chi li vive. Eppure a molti resta il dubbio. Così un’impiegata quarantenne residente in una grande città del Sud, ripensando ai propri sogni, conclude che «io non ti so mica dire se è la mia voglia di vederla [la defunta] che me la fa sognare, oppure se è lei che vuole comunicare con me. Io questo davvero non te lo so dir».

Meno diffusa, ma pur sempre presente in una quota di poco inferiore alla metà della popolazione italiana, è la percezione di essere destinatari della tutela da parte dei propri cari dall’aldilà. Si riconduce all’azione di una persona cara il buon esito di un intervento medico, o la protezione dalle conseguenze peggiori di incidenti, o ancora l’allontanamento da situazioni pericolose o comportamenti dannosi, come l’alcolismo o il consumo di sostanze stupefacenti. Così una cinquantenne marchigiana, miracolosamente salvatasi da un incidente automobilistico proprio nel giorno del compleanno del padre, dichiara: «è chiaro: mio padre mi ha protetta». Sentirsi protetti da chi non c’è più è un’esperienza che appare fortemente legata alle radici cattoliche, tanto che in alcuni casi il defunto assume le sembianze dell’angelo custode, e questo avviene praticamente in tutti i casi in cui quest’ultimo sia un bambino.
Ma forse la forma più diretta di relazioni tra i vivi e i morti riguarda la comunicazione. Al 31% degli italiani è capitato di parlare con una persona che non c’è più. Se una parte di questi dialoghi è interiore, un’altra invece è esteriore, visibile, anzi udibile. Viene fatta a voce e assume la forma di una vera e propria confessione, o di un resoconto su quanto accaduto in assenza del morto, magari al cimitero, davanti a una sepoltura. Altre volte, invece, questi dialoghi si insinuano nella trama della vita quotidiana. Così capita di rivolgersi a un defunto per una richiesta di aiuto, per un consiglio, o per ricevere semplicemente conforto, o approvazione, come racconta un’anziana vedova calabrese a cui capita di dire ad alta voce, rivolta al marito: «vedi? E, quanto saresti contento che io sto facendo questa cosa». Qualunque sia il motivo, sembra proprio che gli italiani preferiscano rivolgersi ai propri cari assai più che a Dio. Se questo accade, è perché i primi sono percepiti come più vicini, più facilmente approcciabili, meno separati da barriere. Meno diffuse, ma tutt’altro che trascurabili come mostrano poi i grafici presentati in queste pagine, sono altre forme di relazione, come avere la visione di una persona cara che non c’è più, o avere un contatto fisico, materiale con essa.

È fin troppo ovvio pensare che queste pratiche siano influenzate dalla religiosità. I dati che i lettori trovano nei due grafici confermano senza ombra di dubbio che, passando dai credenti praticanti ai credenti non praticanti, e da questi ultimi ai non credenti, la diffusione delle pratiche di cui abbiamo dato conto si riduce. Lo stesso accade passando da chi crede a chi non crede nell’aldilà. Ma i lettori noteranno anche che queste pratiche non scompaiono completamente nemmeno tra i non credenti. Anzi. Questo accade perché i legami con i propri morti sono tali per cui anche per un credente “freddo”, e perfino per chi si dichiara materialista radicale, i rapporti con le persone care non cessano dopo la loro morte. Così, tra coloro che non credono affatto nell’aldilà, ben due terzi sognano i propri defunti, un quarto si sente protetto da chi non c’è più e un quinto parla con loro. I morti continuano, quindi, a far parte delle vite di molti di noi. Forse anche più di quanto saremmo disposti ad ammettere.




 
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