- n. 6 - Giugno 2009
- Psicologia
Morte traumatica
A Parigi e in tante altre parti del mondo (Italia compresa, vista la presenza a bordo di alcuni nostri connazionali) molti parenti ed amici hanno atteso notizie dell’aereo scomparso per cause ancora non accertate al largo delle coste brasiliane. Con speranza, con angoscia e con senso di impotenza verso un destino inatteso incombente sulla vita dei propri cari. Quando sono stati avvistati nell’Oceano i primi rottami la speranza è diventata disperazione, l’angoscia ha rotto gli argini e l’impotenza si è trasformata in shock. Le vittime sono in primo luogo i passeggeri che sono andati incontro ad una morte traumatica; ma anche parenti ed amici hanno vissuto e stanno vivendo uno dei traumi più gravi della vita.
Innanzitutto si pensa giustamente a rispondere ai perché di una tale tragedia soprattutto per prevenirne il ripetersi; ma anche lo shock e il lutto dei superstiti devono essere supportati se non si vuole che alla sofferenza della morte si aggiunga quella della vita di chi non riesce con sue risorse personali a “rivivere” dopo la morte di una persona cara. Per le fasi iniziali di shock occorrerebbero le “cellule di crisi”, cioè l’intervento di psicologi preparati ad hoc che, come i giornali hanno riferito, sono state subito attivate a Parigi e che in Italia e in tanti altri Paesi ancora non esistono in forma così istituzionalizzata come oltralpe.
Questi interventi hanno anche lo scopo di prevenire le “complicazioni” (come il disturbo post-traumatico da stress) alle quali il processo psicologico del lutto può andare incontro nei casi di perdite traumatiche quali quella per un incidente aereo, ma, al momento opportuno (dopo qualche mese dalla perdita), devono essere affiancati, se necessario, da un supporto specifico ogni volta che le risorse biologiche, personali o sociali delle persone in lutto non sono sufficienti e l’elaborazione del lutto potrebbe essere ritardata o bloccarsi. In assenza di un tale intervento di sostegno specifico la morte traumatica di una persona può trascinarsi dietro le difficoltà di tornare a vivere per coloro che restano, in forme lievi (difficoltà di piangere e di normalizzare la propria esistenza) o più gravi (perdita di senso della vita, isolamento, atteggiamenti autodistruttivi, …).
In sostanza dovremmo, dopo una tragedia come quella accaduta nell’Atlantico, non limitarci a parlarne per due giorni ininterrottamente e poi cancellarne la memoria: altre tragedie incomberanno e dovremmo organizzare anche in Italia servizi per l’emergenza psicologica come quello francese e servizi per il lutto come quello (Progetto Rivivere, aiuto psicosociale gratuito alle persone e alle famiglie in lutto) che opera da due anni a Bologna grazie al sostegno della Fondazione Isabella Seragnoli.
Quanto infine al ruolo degli operatori di onoranze funebri che organizzeranno le esequie delle persone decedute nell’incidente, bisognerebbe pensare a prepararli adeguatamente affinché possano stabilire rapporti corretti e possano aiutare i parenti delle vittime nel dolore per un congiunto perduto traumaticamente e nella particolare circostanza di dover far svolgere il funerale del proprio caro in assenza di un cadavere che non è stato possibile recuperare.
Francesco Campione