- n. 4 - Aprile 2003
- Psicologia
La morte "fra" pace e guerra
L'attualità mi suggerisce una riflessione sul rapporto che la morte intrattiene con la pace e con la guerra.
Noterò innanzitutto che benché si muoia anche in tempo di pace, la morte è emotivamente molto più presente (come paura, minaccia, angoscia di morte) in tempo di guerra. Non solo perché la guerra produce una quantità maggiore di morti violente, ma soprattutto perché in guerra si muore prevalentemente per mano di altri, del nemico o delle armi che usa contro di noi. E il nemico che ti fa la guerra "vuole" ucciderti, laddove la gran parte delle morti (violente e non) del tempo di pace sono "involontarie". In pace la morte si accompagna alla colpa di qualcuno molto meno che in guerra. Come dimostra il fatto che anche in tempo di pace quando la morte è violenta e un po' colpevole ci richiama la guerra (la guerra degli incidenti stradali o la guerra contro la delinquenza).
La più importante conseguenza è che in pace combattiamo contro la morte e contro le sue cause, in guerra combattiamo solo contro la nostra morte tentando in tutti i modi di procurare la morte al nemico. In altri termini, in pace la morte è sempre "cattiva", in guerra c'è anche una morte "buona" che è quella del nemico!
È vero che anche in pace ci può essere una "buona morte" (come ad esempio la morte istantanea e indolore alla fine di una lunga vita spesa bene, cosa che tutti si augurano al giorno d'oggi), ma non si tratta di una morte da procurare (con l'unica eccezione dell'eutanasia, unico rimedio per alcuni al non riuscire a morire bene).
La morte è dunque sempre presente tra noi, ma in tempo di pace posso combattere contro la mia morte e sperare che anche gli altri mi diano una mano, mentre in guerra siamo di fronte ad una parte dell'Umanità che non solo spera nella nostra morte, ma la promuove attivamente con le armi.
In guerra le energie dedicate a combattere la morte si affievoliscono e morire diventa molto più probabile, cioè l'Umanità diventa molto più vulnerabile. Si sa, infatti, che uno dei fattori della prosperità dei popoli del moderno Occidente sono i lunghi periodi di pace che vi si sono goduti, a differenza di altre epoche storiche anche vicine.
Pace e prosperità vengono infatti associate e sono anche alla base dell'aumento della vita media nei paesi che godono di ere di pace.
La pace, dunque, è preferibile per l'Umanità, come sanno tutti coloro che per esperienza o per razionalità hanno orrore della guerra come fonte di profonda vulnerabilità individuale e collettiva.
Ma perché finora nella storia umana la pace è stata sempre solo l'intervallo più o meno lungo tra due guerre e non il fine ultimo di una specie che, essendo naturalmente mortale, avrebbe interesse a non incrementare con la guerra la distruttività e la morte, ma a combatterle con tutte le proprie energie?
Tra tutte le ipotesi di risposta che la cultura umana ha formulato nel corso dei millenni vorrei discuterne una che mi sembra suscettibile di essere tradotta in termini semplici. Si tratta dell'idea che ha trovato la sua ultima espressione nel pensiero del filosofo E. Levinas, secondo la quale alla base della guerra ci sarebbe la convinzione che ciascuno ha in primo luogo la responsabilità esclusiva della propria vita, responsabilità da affermare di fronte agli altri innanzitutto difendendo il proprio diritto di esistere secondo la propria volontà anche contro la volontà altrui.
Insomma, la guerra scoppierebbe inevitabilmente perché si formano volontà differenti altrettanto legittime che sono incompatibili tra loro e quindi confliggono fino a quando qualcuna di esse non riesce a dominare sulle altre. È a questo punto, e solo a questo punto, che "scoppia" la pace: fino al prossimo inevitabile conflitto di volontà.
E se invece ciascuno di noi sentisse in primo luogo la responsabilità della vita altrui, dato che gli altri che si incontrano non sono solo quelli che ti vogliono dominare ma anche i bambini che per sopravvivere e per crescere hanno bisogno di noi e i vulnerabili del tempo di pace (malati, poveri, stranieri, derelitti di ogni genere) che senza l'aiuto altrui morirebbero certamente?
Noi certo siamo indotti più a difenderci da chi ci vuole dominare che a difendere chi ha bisogno del nostro aiuto per non morire: perché i primi ci fanno un male a cui non ci possiamo sottrarre, mentre dai secondi riusciamo in qualche modo a distrarci!
Ma perché siamo più colpiti da chi ci offende che da chi ci chiede aiuto?
Forse perché anche noi avremmo bisogno di aiuto e di attrezzarci a combattere i nemici ci fa sentire forti e ci fa dimenticare la nostra naturale (anche in tempo di pace) mortalità e vulnerabilità.
La guerra ci dà l'illusione che se il nemico sarà vinto non moriremo mai, che basta "misurarsi" col nemico e ucciderlo per essere immortali!
C'è un'altra via, meno illusoria e più matura, per combattere la nostra inevitabile morte: che altri si assuma la responsabilità di difenderci mentre noi ci assumiamo la responsabilità di difendere gli altri.
Scoppierebbe così la pace e l'Umanità potrebbe dedicare tutte le sue energie a combattere la morte con un duplice guadagno: eliminare la morte più crudele (cioè la morte che ti procura il nemico) e la più pericolosa illusione che essa abbia mai coltivato (l'illusione dell'immortalità che si vive per i pochi attimi che seguono alla contemplazione del cadavere del nemico che ti voleva al suo posto).
Il primo guadagno libererebbe tante energie che come le spese belliche hanno sempre impedito che l'Umanità si dedicasse con maggiore successo a combattere i mali della Natura. Il secondo guadagno consentirebbe finalmente all'Umanità di desiderare l'Immortalità come l'inevitabile tendere all'Eterno e all'Infinito di chi è conscio della tragedia del proprio destino di morte (cioè di finitudine), senza bisogno di raggiungerli concretamente o di illudersi di poterlo fare, conseguendo così una crescita profonda nella direzione di una Umanità più autentica.
Francesco Campione