NELLA TOSCA DI GIACOMO PUCCINI
Uno dei manifesti in stile liberty realizzati per la prima rappresentazione della Tosca di Giacomo Puccini, svoltasi al teatro Costanzi di Roma il 14 gennaio del 1900, ritrae una singolare messinscena funebre: un gentiluomo in parrucca bianca giace a terra senza vita, ritratto di scorcio, con a fianco due candelabri accesi, mentre una giovane donna, la cui ombra si proietta lugubre sullo sfondo, si china su di lui per posargli sul petto un crocifisso. È una immagine assai nota, una vera "icona", in quanto mille volte riprodotta, dal 1900 in poi, su libri e copertine di dischi, ma forse soprattutto perché corrisponde ad un momento decisivo, la fine del II atto, di un'opera la cui universale popolarità ha ben pochi confronti; ed è una scena che si riproduce pressoché identica su tutti i teatri del mondo, dal momento che ben raramente i registi si distaccano qui dalle meticolose indicazioni sceniche degli autori.
Ricordiamo la situazione a cui il dramma è qui giunto: il crudele e vizioso barone Scarpia, capo della polizia, ha sfruttato con l'inganno la folle gelosia della cantante Floria Tosca per arrestare e interrogare torturandolo il suo amante, il pittore Mario Cavaradossi, reo di aver aiutato un patriota repubblicano evaso. La sottopone quindi ad un ricatto: salverà la vita al prigioniero e firmerà un salvacondotto per entrambi se la diva gli si concederà. Lei finge di acconsentire, ma quando egli dopo aver scritto il foglio si avvicina, lo pugnala a morte. "Muori dannato! Muori, muori!", grida Floria all'atroce sbirro agonizzante, e conclude: "È morto! Or gli perdono!".
Caratteristico di questo finale d'atto con cadavere in scena è il lungo tempo che trascorre nel silenzio delle voci, mentre un Andante sostenuto dell'orchestra - uno dei più bei temi dell'opera -
accompagna Tosca che si ravvia i capelli, si lava le mani dal sangue, cerca inutilmente il salvacondotto sulla scrivania; lo vede poi ancora stretto nella mano raggrinzita del morto; quella mano che sembra non voler cedere ciò che stringe, e cade poi inerte con notevole effetto granguignolesco. È qui che avviene la macabra messinscena sopra ricordata; l'importanza che le attribuivano Puccini e i librettisti Illica e Giacosa è testimoniata dal dettaglio della didascalia scenica: "si avvia per uscire, ma si pente, va a prendere le due candele che sono sulla mensola a sinistra e le accende al candelabro sulla tavola spegnendo poi questo. Colloca una candela accesa a destra della testa di Scarpia. Mette l'altra candela a sinistra. Cerca di nuovo intorno e vedendo un crocefisso va a staccarlo dalla parete e portandolo religiosamente si inginocchia per posarlo sul petto di Scarpia. Si alza e con grande precauzione esce, richiudendo dietro a sé la porta".
Il finale dell'atto III (e dell'opera) prevede com'è noto la vendetta postuma di Scarpia, che aveva ingannevolmente promesso a Tosca un'esecuzione simulata; ma quando sulla sommità di Castel sant'Angelo il plotone spara, è lei sola a credere che sia una messinscena. Anche qui gli autori prolungano il tempo scenico caratterizzato dalla presenza del cadavere, con la sventurata Tosca che gli sussurra di non muoversi finché tutti non se ne saranno andati. Tutta questa scena, e i preparativi che la precedono, è come la fine dell'atto II anch'essa dominata non dal canto ma dalla musica strumentale, uno straordinario tema di marcia lenta che accompagna l'arrivo e l'uscita dei soldati, ma che tutti - tranne Tosca -
sentono essere la marcia funebre per Mario Cavaradossi.
Dopo la terribile rivelazione, del tutto diversa invece, fulminea, la scena della terza morte della Tosca, con la protagonista che, all'arrivo degli sgherri che hanno scoperto l'assassinio di Scarpia, si getta dagli spalti del castello.
Concluderemo ricordando che qualche anno fa la violenta drammaticità di questo finale fu in un certo senso aumentata quando il tenore Fabio Armiliato si abbatté sul palcoscenico del Metropolitan di New York realmente ferito - per fortuna alle gambe - da schegge metalliche sparate dai fucili a salve difettosamente puliti; si convertì invece in farsa sempre a New York ma in un teatro minore, nel 1960, quando i tecnici di scena, esasperati dalle bizze del soprano, per vendicarsi sostituirono i materassi su cui doveva cadere con un trampolino elastico, cosicché il pubblico esilarato vide la suicida rimbalzare una decina di volte, in varie posizioni, sopra la linea del parapetto del castello.