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Il tempo reale e il tempo del sogno

Alla scoperta degli Aborigeni d’Australia, detentori della cultura più antica del pianeta caratterizzata dalla sacralità della natura e dalla consapevolezza di esserne parte integrante.

L’Australia è un continente vastissimo in cui gli Aborigeni con le loro diverse etnie hanno costituito un insieme variegato di miti e tradizioni. Questi popoli, proprio come quelli della Nuova Zelanda e della Nuova Guinea che abbiamo trattato nello scorso numero di Oltre Magazine, sono rimasti isolati per molto tempo da un punto di vista geografico e di conseguenza si sono evoluti lentamente seguendo il ritmo della natura e tutelandosi dalle contaminazioni non sempre positive dei coloni olandesi ed inglesi.

Nonostante ogni tribù abbia una  propria consuetudine legata al rito, l’elemento che le ha sempre accumunate è quello relativo alla visione dell’universo e degli individui in relazione ad esso. Secondo il pensiero aborigeno ogni uomo ed ogni donna appartenente alla tribù fa parte di una grande famiglia a cui appartengono, oltre ai membri stessi della comunità, anche gli animali, le piante e qualsiasi altro elemento naturale. Questo legame imprescindibile dà vita alla visione secondo cui tutto ciò che vive è famiglia.

La disciplina di ogni tribù, nonostante le diversità culturali, è sempre stata caratterizzata da due concetti: non prendere di più rispetto a quello che può essere consumato, e non distruggere mai quello che non può essere riprodotto. Gli aborigeni all'interno della loro società hanno sempre avuto il compito di prendersi cura della terra, della propria collettività e di presenziare le cerimonie attraverso le quali viene ulteriormente sancita la loro forte connessione con il cosmo. Il sistema della ritualità, è scandito dai ritmi della natura, dal susseguirsi delle stagioni e soprattutto dal passaggio del tempo dal giorno alla notte; gli Aborigeni di Australia, infatti, si definiscono creature del mondo dei sogni, perché secondo il pensiero comune il mondo in cui vivono non è altro che la rappresentazione di un grande sogno, scaturito dal dio primigenio, alle origini del tempo.

L’importanza del totem

Prima di parlare del mondo onirico degli Aborigeni è importante definire il loro complesso insieme di credenze legato al Totem, un’entità con un alto significato e con cui gli uomini avevano un profondo legame spirituale, quasi di parentela. Ogni tribù aveva un Totem di riferimento identificato da un animale sacro o da una creatura metafisica. I totem raffigurano gli spiriti degli antenati che continuano a manifestarsi sulla terra sotto forma di animale e che con il loro vagare hanno dato vita a tutto ciò che è visibile, come  montagne, corsi d’acqua, rocce e foreste. Il totemismo può essere considerato un’istituzione poiché si tratta di un sistema che racchiude una serie di regole che definiscono sia i comportamenti del singolo individuo all’interno della propria comunità (come ad esempio il divieto di praticare rapporti sessuali tra i membri del medesimo gruppo totemico) sia le relazioni che intercorrono tra le varie tribù ed, infine, l’imprescindibile rapporto con la natura. É un modo unico di concepire la vita dell’uomo e delle creature viventi e allo stesso tempo si connota come uno strumento di conoscenza con una importante funzione sociale.

Il rapporto degli Aborigeni con gli animali totemici era molto profondo e diventava ancora più forte in momenti particolari come quelli legati ai riti di passaggio ed alla ritualità legata alla morte. Per quanto riguardava la sfera della morte e del lutto, l’aldilà non era concepito come il luogo fisico del “dopo la vita” ma come “luogo del sogno”.

Il tempo del sogno

Il totemismo ha stretti legami con la mitologia del Tempo del Sogno, l'epoca antecedente alla formazione del mondo, elemento comune e unificante delle numerose e diverse tradizioni culturali aborigene. Il Tempo del Sogno mantiene un confine molto labile con il mondo reale, potremo definirlo una sorta di dimensione accessibile ai soli aborigeni attraverso il sogno, strumento fondamentale per comunicare con gli spiriti e per comprendere le dinamiche che regolano la vita e la natura. Secondo la leggenda, la porta di accesso allo spazio del sogno è rappresentata dalla fessura situata sulla una roccia di Uluru (ribattezzata dagli inglesi Ayers Rock) nel parco nazionale Uluru-Kata Tjuta. Si tratta di un enorme monolite che sorge quasi misteriosamente in una zona pianeggiate costituito da arenaria rossa che cambia di tonalità  (dall'ocra, all'oro, al bronzo, al viola) a seconda dell'ora del giorno e della stagione. Mentre esteriormente presenta una superficie liscia, l’interno, che si estende in larga parte anche nel sottosuolo, è invece ricco di sorgenti, pozze, caverne e particolari fenomeni erosivi. Non stupisce che un fenomeno naturale così particolare si sia caricato di valenze simboliche e il punto di accesso per addentrarsi nel monolite per gli Aborigeni segna il confine tra il mondo degli uomini ed il mondo dei sogni.

La visione della morte

Determinante punto di contatto tra la dimensione del sogno e quella reale è incarnato dallo sciamano, colui che riusciva ad entrare in relazione con il mondo dei sogni attraverso il sogno lucido con il quale poteva contattare le anime degli Avi o sviluppare nuovi poteri sconosciuti alla tribù, durante uno stato di trance. L’aldilà quindi faceva parte dello spazio del sogno, perché attraverso questo le anime potevano lasciare il corpo e percorrere viaggi spirituali proprio come avveniva dopo la morte. La pratica del sogno lucido rientrava nella sfera della magia, ogni membro della tribù conosceva le pratiche magiche ma solo lo sciamano era autorizzato ad esercitarle nell’ambito della ritualità.

Dopo la morte l’anima del defunto per rientrare nel ciclo eterno della vita doveva essere accompagnata dallo sciamano. Subito dopo l’accertato decesso avveniva una cerimonia funebre molto sentita dalla comunità in cui la salma veniva adagiata su un letto precedentemente purificato con il fumo di foglie bruciate. È interessante notare come gli stessi arbusti venivamo bruciati per le donne della tribù durante il momento del parto. Questo particolare esprime ancora di più la forte connessione tra la vita e la morte e l’idea secondo la quale il decesso non era altro che il momento di passaggio da uno stadio all’altro e non la fine inevitabile della vita. Ogni defunto prima di incominciare il proprio viaggio verso il regno del sogno oltre ad essere purificato era dotato di armi che gli permettevano di procurarsi cibo per il sostentamento nel regno degli Avi.

Il momento del lutto rappresentava un lasso di tempo nel quale tutta la comunità era riunita nei canti e nelle danze ed attraverso il suono del didgeridoo (un antico strumento a fiato) l’anima veniva accompagnata verso il nuovo stadio di esistenza.

L’idillio di una terra incontaminata e di una comunità in profonda relazione con la natura è stato infranto dalla politica di sterminio e dallo sfruttamento economico dettati dai coloni. Il tempo del sogno è diventato quasi un incubo e oggi purtroppo gli Aborigeni con la loro affascinante cultura, costituiscono soltanto una piccola minoranza della popolazione australiana, spesso relegata ai margini della società. Un vero peccato perché la perdita di un patrimonio culturale così peculiare è inevitabile, anche in considerazione del fatto che la trasmissione dei saperi è sempre avvenuta in via orale ed alcuni di questi racconti, quelli ritenuti più importanti, sono rivelati solo a gruppi ristretti della tribù di appartenenza o solo a particolari individui, limitandone molto la diffusione.

La colonizzazione, derubando le loro terre e per un certo periodo sottraendo i loro figli, ha scosso profondamente l’identità di questo popolo incapace di adattarsi ad uno stile di vita che non gli appartiene. Ogni membro di queste comunità spera così di trovare la pace tornando nel tempo del sogno, proprio come recita un vecchio proverbio aborigeno:“Siamo tutti visitatori di questo tempo, di questo luogo. Lo stiamo solo attraversando. Il nostro scopo è osservare, imparare, crescere, amare, per poi tornare a casa”.

 
Miranda Nera


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