- n. 3 - Marzo 2001
- Musica
LA MESSA DA REQUIEM
A cent'anni dalla morte di Verdi
Nelle prime settimane del 1873 si diffuse la notizia che Alessandro Manzoni era caduto in quello stato di smarrimento mentale che avrebbe preceduto di pochi mesi la sua morte.
Così reagì a quella notizia Giuseppe Verdi, in una lettera alla contessa Maffei:
"Quell'altissima mente che si spegne!… Ciò è tremendo! La mente di Manzoni spenta! E la Provvidenza? Oh se vi fosse una Provvidenza credete voi che scatenerebbe tante sventure sulla testa di un Santo?".
Sotto la vivissima spinta emotiva di quella morte il compositore decise di riprendere in mano ciò che restava del progetto concepito cinque anni prima, ma presto abbandonato, di una Messa da Requiem a più mani in memoria di Gioacchino Rossini.
Verdi aveva scritto il Libera me Domine; questa volta avrebbe completato l'opera, per il nuovo dedicatario, da solo. L'occasione fu importante, e non va trascurata la volontà del compositore, sessantenne e universalmente celebre, di inscrivere per sempre il proprio nome accanto a quello della più importante e decisiva personalità espressa dalla cultura italiana nel corso del secolo.
Una personalità a cui Verdi si sentiva ed era, a livello profondo, vicinissimo (e a ciò non fu d'ostacolo il divario radicale fra l'agnosticismo del musicista e la fede profonda dello scrittore).
Cospicua certo l'occasione, ma sarebbe forse un errore sopravvalutarla: anche un conoscitore occasionale del teatro musicale verdiano sa quale peso e profondità ha in esso il tema della morte e la riflessione su di essa (ben al di là del fatto che si tratta di una drammaturgia tragica, in cui necessariamente per lo più i protagonisti muoiono!).
Si trattava a quel punto di portare a ulteriore compimento una esigenza interiore sentita assai profondamente, quella appunto di confrontarsi col mistero della morte, in modo ancora più diretto, senza la mediazione di una vicenda drammatica e dei suoi personaggi.
Si trattava anche di affrontare per la prima volta l'appuntamento - cruciale per quasi tutti i grandi musicisti che lo avevano preceduto - col grande universo della musica sacra; il che poneva certo qualche problema di fondo, visto il convinto agnosticismo di Verdi cui si è accennato sopra (non privo di vivaci venature anticlericali…).
E in effetti, pur nel rispetto ovviamente del testo liturgico, la meditazione verdiana nel Requiem rimane essenzialmente laica.
Resta in ombra, anche se non è del tutto assente, l'idea della morte come approdo di pace e di consolazione; a chiunque lo ascolti per la prima volta si incidono anzitutto nella memoria, destinate a restarvi per sempre, le sconvolgenti esplosioni percussive e foniche del Dies irae e, all'opposto, certi accenti di stupefatta desolazione, ed è in fondo giusto che sia così.
La morte appare qui anzitutto come una brutale folgorazione, che suscita qualcosa di molto vicino ad un moto di ribellione; sotto l'incombere del "Rex tremendae maiestatis", osservava Massimo Mila, è l'uomo ad essere qui il protagonista.
Franco Bergamasco