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Una visita ai quattro sacrari vicentini nella ricorrenza del centenario della Grande Guerra

La memoria della Prima Guerra Mondiale

Era il 26 agosto 1921 quando venne posata la prima pietra, e il 29 agosto 1926 quando il Re d’Italia inaugurò il monumento, costruito su un fazzoletto di terra protagonista di tante battaglie della Grande Guerra, come quella, sanguinosissima, combattuta il 2 luglio 1916 sul vicino massiccio del Pasubio. Sul colle Bellavista che domina la Val Leogra svetta il primo l’Ossario costruito per raccogliere i resti dei caduti della prima guerra mondiale: nella cripta riposano settanta decorati al valor militare, la salma del Generale della Prima Armata, Guglielmo Pecori Giraldi, 5.146 soldati italiani e quaranta austriaci che persero la vita nella prima guerra di massa della storia. Le transenne in pietra traforata a decori geometrici lasciano intravedere le ossa, facendo immediatamente intuire tutta la portata di un conflitto che in totale provocò la morte di tredici milioni di persone: una carneficina che fin da subito fece scaturire il bisogno – tutto umano – di dare degna sepoltura ai resti, di collocarli in luoghi dal forte richiamo sacrale e simbolico che potessero divenire, a guerra conclusa, meta di pellegrinaggio compassionevole per le famiglie straziate dal dolore.
Sopra le spoglie dei caduti del monte Pasubio si è quindi eretta una possente torre – progettata in forme debitrici del passato dall’architetto Ferruccio Chemello, mentre gli interventi decorativi si devono a Tito Chini e a Umberto Bellotto – che ancora oggi domina la pianura sottostante intonandosi con l’ambiente montano, e che compare, con la sua sagoma slanciata, sullo stemma della provincia di Vicenza assieme agli altri tre monumenti che vedremo.
Proprio in Veneto – senza naturalmente dimenticare il Trentino Alto Adige, il Friuli e la Venezia Giulia – si sono infatti concentrati, nel periodo dal 1915 al 1918, i più aspri combattimenti che lasciarono le zone più impervie dei fronti cosparse di cadaveri, anche a guerra finita. Fu una logica conseguenza la costruzione in questi territori, nel primo dopoguerra, dei più numerosi e importanti sacrari destinati a trasmettere la memoria di ciò che fu e che, dopo un lungo oblio, tramite le celebrazioni in corso per i cent’anni, si sta cercando di ricondurre alla conoscenza storica di tutti i cittadini.
Se il secondo sacrario costruito nel Vicentino fu quello del monte Cimone di Tonezza, inaugurato il 28 settembre 1929 a ricordo di un’esplosione inferta dall’esercito austro-ungarico alla Brigata di fanteria Sele, che venne completamente annientata, i due monumenti più conosciuti sono quelli di Asiago e del Monte Grappa.
Sulle dolci linee dell’Altipiano dei Sette Comuni, tra prati verdissimi e boschetti di conifere, il Sacrario del Leiten di Asiago ospita i resti provenienti dai circostanti cimiteri di guerra di 54.236 caduti italiani e austro-ungarici: i nomi di quelli identificati sono incisi sui singoli loculi, mentre grandi tombe comuni ospitano i tanti militari ignoti. All’esterno un ampio terrazzo, una scalinata e il grande arco trionfale dalle linee classiche: il complesso disegnato dall’architetto Orfeo Rossato di Venezia, ultimato nel 1936, nelle linee e nel rapporto con il paesaggio già richiama quello stile razionalista che il regime usò nei monumenti ai caduti non solo a fini di commemorazione ma anche per glorificare e dare un nuovo significato al conflitto e al sacrificio dei soldati.

Ma è sul Monte Grappa che l’aspirazione a modellare lo skyline alpino con un intervento architettonico si concretizza con una potenza che ancora oggi lascia stupefatti. Il luogo fu uno dei baluardi della difesa della patria dall’invasione austriaca, tanto quanto il Piave, ed entrambi divennero ben presto oggetto di un processo di mitizzazione (“O montagna per noi tu sei sacra, / giù di lì scenderanno le schiere / che irrompenti a spiegate bandiere / l’invasore dovranno scacciar”, recita una nota canzone). Già dal 1918 due comitati lanciarono proposte per costruire un memoriale, ma la vicenda subì rallentamenti e intoppi fino a quando, nel 1933, i lavori vennero sbloccati e si poté rapidamente procedere al completamento del monumento, con alla guida l’architetto Giannino Castiglioni e lo scultore Giovanni Greppi. Il sacrario non prevede spazi chiusi: diverse tappe scandiscono il percorso ascensionale dalla scalinata che attraversa i cinque gradoni concentrici al sacello, dove si trova un’immagine devozionale della Madonnina, per poi proseguire lungo la via Eroica affiancata dai 14 cippi dedicati ad altrettante battaglie e giungere infine al Portale di Roma. A differenziare quello del Monte Grappa dagli altri sacrari è da un lato lo schieramento dei 22.950 caduti “serrati in falange” nei loculi e non più custoditi in teche in una cripta, dall’altro un massiccio intervento sulla montagna e sul relativo paesaggio.

Se i primi ossari, che mettevano al centro gli estremi resti mortali dei soldati caduti, trasmettevano un messaggio molto concreto e ancora profondamente legato alla pietas privata, con i sacrari di epoca fascista si operò una vera e propria sacralizzazione: nulla più resta nel nome della morte, e tutto è già rivolto alla sublimazione. Volgendo lo sguardo a est, e spingendoci verso quel confine conquistato a così caro prezzo, corona la cosiddetta “invasione monumentale” il sacrario di Redipuglia: lì per ciascun soldato un identico ma quanto mai significativo nome è scolpito per l’eternità sulla pietra dei gradoni: “Presente”!
 
Marta Santacatterina


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