- n. 11 - Dicembre/Gennaio 2001
- Appunti di viaggio
MAGIE D'ORIENTE
Non è il mio primo arrivo in territorio straniero. Ne ho già vissuti parecchi, ma per la prima volta sono andata verso il Sole, invece che inseguirlo, e ho trovato i colori tenui e soffusi che solo un'alba può darti.
L'Oriente che ho visto ha un carattere ben diverso dalla paradossale America-Latina, temevo non reggesse il confronto, e invece le tinte sfumate e omogenee possono comunicarti un senso di pace superiore rispetto alla forza dei contrasti decisi delle terre calienti, la psicologica danza Le-Gong ammaliarti più che un vorticoso samba. Non so dire se lo preferisco. So solo che è differente da tutto quello in cui mi ero imbattuta prima. Non cattura irruento, ma pervade piano e se, in certi momenti, hai bisogno di un pizzico di poesia, non puoi chiedere di meglio.
Sono capitata in Indonesia, sull'isola di Sulawesi, in Tana Toraja, un territorio che geografi puri definirebbero "luogo di rifugio per culture residue", ma che in realtà va al di là di una semplice formulazione scientifica ed è così incantato che neanche le magiche atmosfere di un libro per bambini riuscirebbero a rendergli giustizia.
Sono montagne delicatamente selvagge, avvolte nei silenzi profondi e nelle voci della natura più pura e intoccata, e così le persone che vi abitano, primordiali e di una semplicità disarmante. Salgo per strade sterrate che mi condurranno dritte allo scopo della visita. Sono combattuta tra l'attrazione e la preoccupazione per quello che sto per vedere, una cerimonia funebre come esistono solo quassù, a 2000 metri sull'equatore, senza turisti, senza contaminazioni occidentali, se non quella di qualche Olandese imperialista più invadente di altri che, arrivato fin qua nel 1920, importò la cultura cristiana, destinata poi a fondersi con il loro animismo.
Un passo prima c'è il silenzio, un passo dopo so che inizia un bailamme di emozioni, colori, suoni e profumi. Mi renderò conto solo poi che spesso il colore era il nero, i suoni sgradevoli grida di maiali poco propensi allo sgozzamento e i profumi odori forti di sangue, di umanità, di fatica. Ma è come se tutto fosse stato parte di un disegno superiore, di qualcosa oltre la materialità delle azioni e delle circostanze, ho sentito viva la forza di sentimenti originali a regolarne i meccanismi.
Appena entrata nella cerchia di padiglioni di bambù addobbati a festa - perché per loro è di questo che si tratta - temo di svenire. Devo ancora staccarmi dalla mia mentalità e confondermi nella loro e dopo poco tutto quello che prima sentivo ostile passa o si trasforma.
Non mi fa più senso mangiare con le mani, seduta per terra, di fianco a tante persone che mi osservano e che sono paradossalmente meno affascinati dalla mia diversità di quanto io lo sia dalla loro.
I bambini curiosi mi sfiorano di nascosto, tutti in qualche modo cercano un contatto fisico e presto abbattono le mie reticenze. Mi hanno messo nel posto d'onore, di fronte alla torre di bambù da dove i defunti presiedono alla cerimonia e anch'io posso così osservarne facilmente i momenti.
Prima sfilano molte persone e portano i loro doni: bufali, maiali, polli, che vengono accuratamente segnati: quantità e nome del proprietario. Quando sarà giunta la sua, di ora, gli verranno rifusi.
I funerali diventano in questo modo il più importante momento economico della comunità, con uno scambio di beni tale da costringere spesso le famiglie a riunire in un'unica cerimonia più defunti e aspettare di essere in una condizione sufficientemente favorevole per rendere a questi una funzione degna della casta a cui appartengono. La famiglia deve quindi sopportare gli oneri che essa porta con sé e soddisfare le centinaia di invitati. Nulla di più simile ai nostri matrimoni, penso.
Mi raccontano che quando un parente muore viene imbalsamato e rimane fino al funerale coi familiari nel Tongkonan, la loro buffa quanto complessa abitazione a forma di nave. Lì la vita è in comune, non ci sono stanze o ambienti separati, il morto viene trattato come fosse vivente e maggiormente onorato. Lui ha già attraversato il capello che separa il mondo reale dal Puya, il paradiso, ma la famiglia si ostina benevolmente a volerlo con sé fino al giorno della cerimonia finale, che può avvenire anche anni e anni dopo la morte. Questa lunga e ai nostri occhi particolare elaborazione del lutto consente loro di affrontare serenamente quella che per noi è una situazione di dolore devastante. Quando, infatti, arriva il momento del funerale vero e proprio questo viene vissuto come una festa, durante la quale i parenti devono più che altro preoccuparsi di curare gli aspetti economici, intrattenere gli ospiti e impressionare il più possibile gli Dei perché intercedano poi bonariamente verso i componenti ancora in vita della famiglia.
Accovacciati l'uno accanto agli altri ci parliamo in un inglese stentato, mentre cerco di rifiutare in modo inoffensivo qualcuna delle portate che mi vengono continuamente offerte. Mi guardo intorno e stanno entrando nello spiazzo una serie di bufali, già mi aspetto una scena forte e non poco violenta. Stanno iniziando i sacrifici. Posso sempre chiudere gli occhi, suscitando le risate degli stessi bambini, per i quali è una vista usuale ed eccitante, ma ho più paura degli urli delle bestie.
Sto cercando di spiegare la mia situazione ai vicini, i più gentili (e meno interessati al rito) mi sorridono con aria compassionevole, ma è proprio mentre parlo rivolta a loro che capisco che la funzione è già stata assolta. Le uniche grida sono state delle persone. Loro, i bufali, si sono fatti recidere la carotide in tutto silenzio, non so come dire, consapevolmente, dignitosissimi.
Mi spiegano che nella vita del popolo torajano hanno un ruolo fondamentale, che vengono trattati come parte integrante, a dir poco necessaria, della famiglia. Sono i loro animali domestici più curati, basilari per la coltivazione delle ricefields e per tutte le attività di fatica; sono oggetto di prestigio, nonché il più grosso investimento possibile (i tedong bonga, bufali pezzati con gli occhi azzurri, rarissimi, possono arrivare a costare l'equivalente di 10 milioni di lire).
Il bufalo viene lavato più dei bambini, viene coccolato, viene imboccato amorevolmente: "Se no non mangia" rispondono dei ragazzi, davanti al mio stupore. È così che capisco che sacrificarli al funerale del capofamiglia, assegnandogli l'arduo compito di assisterlo nel lungo e faticoso viaggio verso l'Aldilà, è l'estremo tributo che possa essere loro offerto, e ciò che di primo acchito poteva sembrare una barbarie, si rivela l'opposto, perdendo paradossalmente tutta la sua crudezza.
Razionalmente mi sento bene, giusto il fisico è stanco, forse per le troppe emozioni. È passato tanto tempo, ma in questa dimensione non me ne sono resa conto. Lascio la festa e continuo a procedere, arricchita, in un mondo che col mio non c'entra nulla ma che sento incredibilmente vicino.
Sento mie le montagne, miei i boschi e i torrenti, i panorami mozzafiato, familiari le persone che incontro, tutte sorridenti, tutte delicate. Sarebbe perfettamente armonico anche vedere bambini volare tra i rami di bambù e il mio amico Hans mi spiega che inconsapevolmente ho trovato una immagine più adatta di quanto pensassi. Quando un bimbo muore prima di che gli siano cresciuti i denti, mi racconta, le credenze cristiano-animiste non consentono che sia posto in una lapide di pietra e così vengono scavati i tronchi degli alberi più grandi per poter deporre lì il corpicino. L'albero stesso, come magicamente, penserà a interiorizzare il gesto umano e in poco tempo non se ne vedranno più le tracce, mentre anche la piccola anima avrà così modo di raggiungere il Puya. "Volerà via col vento, insieme alle foglie". Mi dice.
Un'altra comunione uomo-natura, un'altra favola, dolcissima, della buonanotte; la giornata è finita e con lei l'alba del giorno che ho cercato.
Ma la pace rimane e così serena mi addormento.
Chiara Galloni