- n. 12 - Dicembre 2003
- Psicologia
LE MADRI DEI KAMIKAZE
Mi scrive A.S. da Brescia: "
Da tempo i giornali parlano di kamikaze che si uccidono uccidendo e ci stavamo assuefacendo a queste notizie. Ma ora che un kamikaze ha ucciso degli italiani la cosa non può più essere esorcizzata ponendola a distanza, convinti che accadrà sempre ad altri. Mi rivolgo a lei perché ha già scritto su questo argomento(Oltre Magazine, giugno 2003). Diceva allora che dovrebbero essere le madri di coloro che si immolano a fermare i loro stessi figli, e avevo sperato che avesse ragione. Di queste madri che dovrebbero intervenire a difesa dei loro figli e dell'Umanità non sembra esserci traccia: mi chiedo, e Le chiedo, se la speranza di interrompere la spirale del terrore sia ormai vana".
Risponderò dicendo innanzitutto che l'unica speranza che vedo sta nel fatto che oggi questa domanda ce la poniamo proprio tutti: sarebbe davvero grave se, in quanto domanda senza risposta, smettessimo di farcela o se la facessero solo una minoranza di inguaribili ottimisti! Un grido di dolore che costituisce il coro del mondo a cui apparteniamo troverà prima o dopo risposta, come sempre è stato nella storia umana. Bisogna però saper aspettare perché si tratta di una di quelle domande a cui si può rispondere proponendo una profonda trasformazione: c'è stata la crisi del mondo pagano ed è arrivato Cristo. Prima ancora, ad un'altra crisi epocale aveva risposto il Budda (che ora entra prepotentemente anche nelle nostre coscienze).
La crisi attuale è quella che perverte la morte facendola diventare (da estremo stigma di vulnerabilità che accomuna gli uomini e li induce alla pace) inarrestabile mezzo che rende perenne la guerra (perché il vinto non si da per vinto e si uccide, portando la morte e il terrore della morte tra i vincitori). Anche Cristo era venuto a dire che bisogna morire per rinascere, ma morire per gli altri riscattando i propri peccati, non morire per sé (cioè suicidandosi) contro altri. E aveva potuto dirlo perché la vita (perfino un'altra vita) era preferibile per gli uomini alla morte. Cristo era contro la morte e anche la meditazione del Budda è contro la morte. E se la morte è un male non può essere un mezzo per conseguire un bene. Per il kamikaze essa è invece il mezzo estremo per non arrendersi e per impedire la pace, cioè la sconfitta.
Da un punto di vista psicologico funziona perfettamente: nell'attimo del sacrificio il kamikaze da vinto si converte in vincitore, da suicida in martire; e l'esaltazione emotiva che ne deriva vince l'angoscia e la paura della morte, come è sempre stato in tutti i tempi per gli eroi consapevoli.
Perdonare il nemico perché "non sa quello che fa", sopportare pazientemente le ingiustizie e aspettare che il nemico manifesti la sua vulnerabilità per poterlo aiutare e così conciliarsi con lui. Un messaggio cristiano o ebraico-cristiano senza speranza di poter raggiungere i futuri kamikaze, i quali pensano che il "nemico sappia anche troppo lucidamente" quello che fa ed hanno fatto solo l'esperienza di chi approfitta della vulnerabilità altrui per dominare, umiliare, opprimere.
Abbandonare ogni bramosia (perfino quella del nulla) raggiungendo uno stato di fusione con il tutto che produce compassione per tutte le creature e per tutte le cose, comprendendo così che vinti e vincitori sono due figure della vanità del desiderio. Un messaggio buddista senza speranza di poter raggiungere i futuri kamikaze, i quali pensano che si tratti di una proposta dei vincitori per i vinti, per condannarli senza speranza al loro destino.
Ecco perché Cristianesimo e Buddismo sono incapaci di dare speranza di fronte all'orrore del terrorismo kamikaze: perché i nemici dei kamikaze, i vincitori, cioè noi,
non si comportano né da cristiani né da buddisti: dov'è il perdono nelle nostre coscienze? Dove sono le ragioni degli altri (i dannati della terra) nei nostri comportamenti? Dov'è la pazienza di sopportare aspettando che la vulnerabilità che accomuna tutti aiuti la pace tra tutti? Quando e dove si dà qualche rinuncia alla bramosia? Dov'è la compassione per le creature e per le cose del mondo? E allora?
O diventare cristiani e perdonare sopportando il male in attesa che la vulnerabilità di chi lo compie accomuni il suo destino al nostro (cosa palesemente impossibile per chi ha ancora aperte le ferite delle offese ricevute).
O diventare buddisti, togliere valore alla vita individuale e alle sue emozioni devastanti abbandonando i desideri e producendo così una compassione universale (cosa palesemente impossibile per chi è devastato dal desiderio di vendetta).
Oppure…, oppure solo l'amore incondizionato di chi ci ha messi al mondo potrà lenire le offese ricevute e spegnere la bramosia di vendetta.
Sì, posso concedere a questo punto che forse non sono le madri dei kamikaze che possono fermarli, perché forse esse sono ferite come loro, magari per la perdita di un altro figlio. Tua madre ti ha messo al mondo per non perderti, il suo amore non era incondizionato. Non sarà che usiamo il nome "madre" in modo metaforico riferendoci non alla nostra povera madre che forse condivide il nostro stesso destino e non può che confermarlo, bensì ad una entità dello spirito, a quella capacità misteriosa che riattiva l'amore per la vita anche dopo le più immani tragedie e che si chiama Umanità?
Ecco, io spero che, attraverso il coro della domanda senza risposta che ci opprime oggi, l'Umanità sappia trovare una via di trasformazione per i suoi membri anche stavolta. Un nuovo Cristo che superi Cristo, un nuovo Budda che superi Budda.
Ah, se fossi profeta e potessi parlarne più esplicitamente!
Francesco Campione