Una artista tailandese, Araya Rasdjarmreamsook, ha tenuto il 9 novembre 2005 all'Istituto di Anatomia Patologica dell'Università di Torino una lezione sulla morte e sull'aldilà. Non si capirebbe cosa ci sia di artistico in questo se non si sapesse che la lezione è stata fatta a 10 cadaveri, mentre il pubblico ammesso ad assistere alla performance restava dietro ad una vetrata. E, mentre fa lezione, l'artista, come qualsiasi professore, interroga gli studenti chiedendo loro soprattutto come vorrebbero che fosse il proprio funerale o cosa si aspettino dal paradiso.
La razionalità dell'evento è stata spiegata dalla stessa artista in una intervista al quotidiano La Repubblica di martedì 8 novembre: "Se non sembrasse una battuta, direi che interrogo i morti perché i vivi non ti ascoltano. È molto difficile parlare della morte con i vivi, non si fa nella vostra cultura. Nell'antichità si affrontava di più il senso della fine dell'esistenza; per tante ragioni ora non è più così. In Tailandia, e in generale nel mondo asiatico, la filosofia è differente. È tutto più semplice, normale: si nasce, si cresce, ci si ammala, si muore. Desidero capire qualcosa di più del vostro rapporto con la morte, perché non se ne parla volentieri, perché è qualcosa da cui si rifugge. E il rifiuto si riscontra anche per quanto riguarda gli aspetti corporei, e quindi i cadaveri. Che io mostro, ma non per fare spettacolo".
Riflettiamo:
1 innanzitutto ci troviamo dinanzi ad un paradosso: poiché, in Occidente, i vivi non rispondono alle domande sulla morte, allora è meglio interrogare i morti, cioè quelli che Levinas con una nota ed efficace formula chiama i "senza risposta";
2 non è del tutto vero che in Occidente non si dica come si vorrebbe il proprio funerale o come si vorrebbe fosse trattato il proprio cadavere. Ci sono infatti sempre più movimenti culturali che promuovono le decisioni in vita sul trattamento del cadavere (inumazione o cremazione), sui riti funebri o sulla donazione degli organi;
3 sull'aldilà, poi, il fatto che non si risponda a cosa ci si aspetti dopo la morte dipende dalla crisi che, dalla fine dell'Ottocento, investe la fede in un'altra vita dopo la vita: non si risponde sull'aldilà perché la maggior parte degli Occidentali o non ci crede affatto o ha molti dubbi al riguardo;
4 la visione per cui nell'antichità e nelle culture orientali il rapporto con la morte sia più semplice e "normale" che in Occidente appare un po' superficiale. Basti considerare che la familiarità con cui molte civiltà del passato e molte culture orientali del presente trattano la morte dipende dai significati mitologici, religiosi o simbolici che le vengono attribuiti. È infatti sempre su basi di attribuzione di significato (in termini di un racconto mitico, di una credenza religiosa o di una visione filosofica o simbolica) che si semplifica il rapporto con la morte. In tutte le culture antiche, ad esempio, ci sono "rituali funerari" che esprimono in termini simbolici la concezione della morte che la mitologia o la religione di volta in volta apportano. E i rituali sono vere e proprie "tecniche culturali" per attenuare la tragedia, il trauma e la crisi della morte e per rendere i morti meno minacciosi trasformandoli in forze protettive dei vivi;
5 infine, non si capisce come una lezione "per soli morti" possa non essere uno spettacolo, dal momento che prevede la presenza di spettatori, seppur tenuti nascosti dietro ad una vetrata.
In conclusione, svolgere una lezione sulla morte (la performance si chiama "class") per soli morti può essere al massimo un paradosso che fa notizia e spettacolo, ma se attraverso di essa ci si propone, ed è il caso dell'artista in questione, di comprendere l'atteggiamento moderno nei confronti della morte e dell'aldilà che predomina in Occidente, occorre essere meno superficiali e liberarsi dal pregiudizio che impera oggi (e sempre) secondo il quale l'antichità è sempre meglio della modernità o della contemporaneità o che l'Oriente è sempre meglio dell'Occidente.
Approfondendo un po' meglio le cose e mettendo tra parentesi questi pregiudizi (che sono tipicamente contemporanei e che fanno il paio con quelli un po' meno recenti per cui ciò che è moderno è sempre meglio di ciò che è antico o ciò che è europeo è sempre meglio di ciò che è asiatico) appare il vero problema che dobbiamo affrontare pensando alla morte e confrontandoci con le epoche passate o con la cultura orientale: abbiamo ancora bisogno (come gli antichi) di miti, di religioni e di simboli sulla base dei quali costruire tecniche culturali, cioè rituali, che ci consentano di affrontare la morte e di combattere efficacemente la paura e l'angoscia (dei morenti) o lo strazio (dei dolenti)? Abbiamo bisogno di mutuare dalle culture orientali concezioni che ci aiutino ad accettare la morte andando oltre ad essa in modo diverso dalle religioni, come ad esempio l'idea che morire può essere positivo essendo qualcosa che va nella direzione dell'annullamento di ciò che è imperfetto (l'individuo) e avvia verso ciò che è perfetto, il tutto?
Forse, al contrario, dovremmo chiederci se dobbiamo costruire un modo di confrontarsi con la morte che renda superfluo all'Umanità il ricorso a processi per andare "oltre" la storia:
a. prendendo una volta per tutte atto della irreversibilità della crisi in cui sono caduti i miti, i simboli, le religioni e i rituali che ne derivano, quali espressioni dell'alienazione umana;
b. considerando gli ideali di perfezione che dall'oriente ci indicano la possibilità di produrre con la meditazione una sconfitta della morte una forma di alienazione simile a quella delle mitologie religiose, la forma in cui l'uomo può cadere pagando ad esempio, come si paga in Oriente, un prezzo altissimo per conseguire la serenità di fronte alla morte: disinteressarsi di migliorare concretamente il mondo e la vita dalla cui bramosia ci si dovrebbe distaccare per non temerne la fine.
Possiamo chiederci, senza presunzione ma senza spirito di rinuncia, se una volta nella vita abbiamo incontrato qualcuno in grado di vivere dopo la morte di una persona cara continuando a volerle bene nell'unico modo possibile, cioè assumendosi la responsabilità di continuare a vivere non solo per sé, ma cercando di sostituirsi a lei, non dimenticandola, presentandola agli altri e continuando a farle giustizia. Solo in questo modo potremo cessare di raccontarci che dopo la morte ci sono altre vite, non c'è niente o c'è il tutto a cui ci dobbiamo fondere diventando perfetti. Perché ci baseremo, per vivere la morte, sulla consapevolezza che essa non è in grado di ucciderci totalmente poiché, dopo che saremo morti, resterà la parte di noi che anche da vivi era il nostro essere"per altri". Solo così il non-essere più del corpo e dell'identità particolare che la morte determina potrà non prevalere sull'essere di ciò che passa "tra" noi e gli altri. Non ci sarà più bisogno di padroneggiare o di vincere la morte perché essa non sarà in grado di vincerci.
"Forte come la morte è l'amore", dice il Cantico dei Cantici. Non potremmo accontentarci di un pareggio?