Rotastyle

Lettera di un pensionato

Dal barbiere di inizio secolo all'impresario di oggi
L'obbligo di una esemplare deontologia


C'era una volta…
È con questa tipica frase che solitamente inizia il racconto di fatti o avvenimenti risalenti a tempi remoti, sovente fantasiosi o immaginari, tanto da assumere la connotazione di favole. Quanto sto per illustrare, al contrario, non è frutto di immaginazione o di fantasia e non affonda le radici in un passato tenebroso, ma si riferisce a consuetudini risalenti a soli sessanta anni or sono o poco più.
Quando ero bambino e vivevo nel mio paesino appollaiato su di una collina emergente fra la sconfinata pianura dauna e gli aspri contrafforti boscosi dell'Appennino meridionale, i notabili locali, appartenenti alle famiglie dei ricchi latifondisti terrieri, avevano ognuno il proprio barbiere di fiducia che si recava di persona nei palazzotti avìti a 'servire', di sola barba o del taglio dei capelli o di entrambi i servigi, i signorotti ed i rampolli signorini della casata.
Chissà perché, non lo ho mai capito, quando in una di quelle magioni avveniva un decesso, il fattore di campagna, che era anche l'uomo di fiducia ed il capo indiscusso della manovalanza del nobilotto, chiamava il barbiere, al quale venivano affidate tutte le mansioni relative all'organizzazione del funerale; costui incaricava il falegname che, dopo aver preso le misure al morto, preparava la bara, ingaggiava le prefiche che dovevano piangere il trapassato notte e giorno, contattava il Capitolo della Cattedrale che partecipava all'accompagnamento in pompa magna con tutti i prelati, provvedeva a fare intervenire sacerdoti e suore, chierichetti ed orfanelle, predisponeva che dalla città giungesse un adeguato numero di corone, avvisava tutte le Chiese che al passaggio del corteo funebre suonassero le campane a morto, procurava la 'carrozza' per il trasporto e seguiva, affaccendato a sorvegliare e raccomandare, il lungo corteo che solennemente si snodava per le strade principali del paese fino al camposanto; infine, nei giorni successivi, stilava meticolosamente la nota delle spese e provvedeva a pagare tutti con il denaro che aveva ricevuto dal capostipite della famiglia del defunto.

Chi incassava il morto? Chi spostava il feretro attraverso la successione labirintica delle camere, dei cunicoli, delle tortuose scalinate, fino alla 'carrozza'? Ci pensava la comunità, la collettività, il paese tutto, con il barbiere a sovrintendere le varie fasi della cerimonia. Oggi è scomparsa questa figura di fac-totum/fiduciario, non ci sono più le popolane che per pochi spiccioli piangevano i defunti altrui, non ci sono più i falegnami che nell'arco di una nottata costruivano, lucidavano e guarnivano la bara, non ci sono più orfanelli e suorine a biascicare rosari, non c'è più la comunità che, con la sua partecipazione unanime e solidale, assicurava le incombenze del facchinaggio.

Oggi in ogni dove, anche nei più piccoli agglomerati urbani, si è imposta la figura dell'impresario di pompe funebri o di onoranze funebri o, in termini più chic, delle estreme onoranze, che, con il suo magazzino di cofani subito pronti, i suoi dipendenti, le sue attrezzature, dovrebbe rappresentare la sintesi operativa del processo evolutivo che, sotto la guida di leggi di carattere tecnico/igienico/sanitario in continuo perfezionamento, tende a creare un operatore di alto profilo professionale e specialistico.
Tendono ma non ci riescono, perché se da un lato ci sono gli sforzi dottrinali di mera accademia dei teorici, dall'altro, profondamente radicata nella mentalità dell'impresario tipo, sopravvive la volontà predatoria e prevaricatrice, priva di qualsivoglia spinta evolutiva e avulsa dal processo di crescita che dovrebbe essere professionale, culturale ed etico.

Nella stragrande maggioranza dei casi, l'attuale impresario ha soltanto sostituito il barbiere, senza avere acquisito la conoscenza delle leggi che, sia pure in maniera ferraginosa, com'è nella formulazione di quelle italiane, oggi regolamentano il settore. Ci sono tanti sprovveduti che acquistano dei cofani, un catorcio di carro funebre, una coppia di candelabri, un paramento a lutto, e si improvvisano impresari, pur restando privi di qualsivoglia straccio di cognizione legislativa.

Del resto non c'è nulla di più facile che prendere un corpo inanimato, deporlo in una bara e il giorno successivo trasportarlo al cimitero. È un lavoro che nell'accezione comune impegna poco e rende molto.

Quello che, invece, impegna veramente, richiedendo anche un discreto livello culturale di base, è l'apprendimento e l'osservanza delle norme, delle leggi, dei regolamenti che governano il comparto, non solo a livello locale, ma anche nell'interscambio con altre nazioni, nei rapporti con le istituzioni, la consapevolezza dei diritti e dei doveri, la capacità di mantenersi aggiornati nella evoluzione legislativa, l'attitudine organizzativa, il giusto equilibrio nei consigli da fornire alla clientela, l'intrinseca approfondita padronanza della materia, necessaria ad indirizzare i dolenti nella scelta della pratica funeraria.

In mezzo a noi, purtroppo, vi sono molti cosiddetti impresari che ignorano le procedure per la cremazione, che non sanno distinguere fra inumazione e tumulazione o fra esumazione ed estumulazione, così come vi sono operatori che non sanno dell'esistenza del D.P.R. 285/90 o della Convenzione di Berlino che disciplina i trasporti internazionali. Anni fa fui chiamato da un collega di paese che doveva procedere alla estradizione di una salma in Canada; mi dichiarò che dopo due ore dal decesso aveva praticato al defunto l'iniezione conservativa ed ignorava completamente come procedere all'espletamento delle pratiche!
Quando gli accennai alla Convenzione di Berlino si meravigliò di questa complicazione e quando gli dissi che per legge i trattamenti conservativi possono essere praticati solo dopo il normale periodo di osservazione, trasalì!

Mesi fa è deceduta una mia zia in una grande città del nord Italia; ad una mia sorella, colà residente, che si era interessata di organizzare le esequie, è stata richiesta una cifra equa per il funerale in loco e tre volte tanto per il trasferimento della salma in una località distante poco più di quaranta chilometri. E mia sorella ha pagato "tre volte tanto", senza neppure interpellarmi, convinta com'era che, in ogni Comune di transito, si pagasse una sorta di "pedaggio", così come l'impresario al quale si era rivolta le aveva fatto credere.

Se a tutto ciò si aggiunge la solita "caccia al morto", praticata con i metodi più perfidi che fantasia possa immaginare, il quadro è completo.

Dunque: impreparazione, dilettantismo, avventurismo, predazione e prevaricazione!
Come si può ipotizzare che il semplice possesso di un carro funebre e di due dipendenti possa sovvertire questa confusionaria situazione di non professionalità, è davvero improbo. Eppure filosofi indottrinati di astratte teorie e, questo fa più specie, associazioni di categoria come la FENIOF, si affannano a perorare l'approvazione di tali misure come panacea che guarisce tutti i mali.
Non c'è peggior sordo di chi non vuole ascoltare.
E costoro si rifiutano non solo di ascoltare, ma anche di guardare l'inverecondo e degradante spettacolo di malversazione del quale la categoria continua ad essere protagonista indiscussa. Se non si agisce sulle coscienze e sulla "cultura" non c'e via d' uscita; chi è impreparato resta impreparato, chi è disonesto rimane disonesto; non sono gli strumenti che forniscono la professionalità a chi non la possiede, ma la consapevolezza delle proprie conoscenze, la propria onestà intellettuale da mettere al servizio di chi ha bisogno del nostro supporto umano e deontologico in un contesto anomalo dal punto di vista psicologico ed emotivo, come solo è la morte di una persona cara.

Ed il rispetto.
Rispetto per chi non c'è più, rispetto per chi ne piange la dipartita, rispetto per coloro che svolgono il nostro stesso lavoro, rispetto per se stessi, per la propria dignità di uomini e di operatori, che non può e non deve essere barattata con l'acquisizione di un servizio con sistemi illeciti e fraudolenti, che non si deve svendere per un tozzo di pane che non sia quello guadagnato con il proprio lavoro espletato solo in funzione di una scelta ineludibile da parte di chi per amicizia, per stima, per fiducia, per apprezzamento, ci ha investito di un incarico tanto delicato.


 
Alfonso De Santis

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