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UNA ILLACRIMATA SEPOLTURA

Zacinto è una delle isole greche dell'arcipelago ionico, cui appartiene anche Itaca. Il mito narra che proprio dalla spuma delle acque che lambivano quelle isole ebbe i natali la dea Afrodite, che i Latini chiamarono poi Venere. Era la dea dell'amore, della vita, della fecondità, e quelle isole per prime ebbero il privilegio del suo sorriso portatore di vita. Il primo e il più grande dei poeti, Omero, non dimenticò la bellezza di Zacinto, i suoi cieli limpidi e il suo manto di smeraldo, e ne parlò, la cantò nei suoi versi. Una di quelle isole, Itaca appunto, fu la terra natale del più famoso fra gli eroi omerici, Ulisse, e dall'antico poeta sappiamo le lunghe peregrinazioni, per mare soprattutto, che il Fato volle per lui, prima di lasciarlo tornare a casa, bello di fama e di sventura, e chiudere così una esistenza avventurosa ma compiuta, conclusa, dotata di senso; come se proprio quel ritorno a Itaca le conferisse alla fine un significato.
È così che a partire dalla semplice immagine di un'isola greca, Zacinto, è tutto un "altro" mondo che si presenta ai nostri occhi: l'Ellade antica, il mondo idealizzato della classicità. È un poeta, moderno questa volta (siamo nel 1802) a rievocare, a far rinascere anzi quel mondo davanti ai suoi e ai nostri occhi, ma non solo: la sua voce ci parla anche, anzi forse soprattutto, di lui stesso.
Zacinto è la sua isola natale, come Itaca lo fu – nella leggenda omerica – per Ulisse; ma mentre l'eroe "classico" tornerà a baciare la sua terra, l'eroe moderno, il poeta stesso, avrà tutt'altro destino. Anch'egli ha una vita inquieta e avventurosa e – lo sappiamo da tanti altri suoi testi - ama dipingerla come un esiglio pieno di aspre vicissitudini, simile a quello di Ulisse (ma anche di vero, effettivo esilio poi si tratterà, negli ultimi anni della sua vita). Sa però che il mondo moderno, diversamente da quello classico, è il mondo dell'incompiutezza, dello smarrimento, in cui gli uomini errano, ma senza raggiungere una meta, lungo tutto il corso delle loro vite irrisolte e insensate.
Il poeta moderno vorrebbe sottrarsi alle vicissitudini del nostro presente, della nostra storia caotica e angosciosa tornando almeno, alla fine, nel grembo della terra natale: essa potrebbe accogliere le sue spoglie mortali, custodirne il ricordo. Già sente, però, che questa aspirazione resterà inappagata: la terra-madre non riavrà il corpo del figlio e altrove, lontano, vi sarà una tomba su cui nessuno sosterà a ricordare e a piangere.
Sempre impressiona constatare che il poeta realmente ebbe poi a morire, nel 1827, povero e solo, in terra straniera. Anche l'altra sua previsione si è però avverata: il canto, la poesia che egli dedicò a Zacinto, rimane, e noi siamo qui ora, due secoli dopo, a leggere uno dei più grandi capolavori di Ugo Foscolo.
 
Franco Bergamasco

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