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L'IDILLIO DI ALFONSO DE SANTIS

Allegato a questo numero di OLTRE avrete certamente trovato il pieghevole di presentazione di un libro di Alfonso De Santis, "Il dito nella piaga", che a breve sarà disponibile e che è possibile prenotare fin d'ora. Si tratta di una raccolta di quindici novelle, ambientate tutte nel mondo delle Onoranze Funebri, nelle quali l'Autore, con il suo caratteristico stile brillante e un po' aulico, e con qualche forzatura evidente, tratteggia con delicatezza i personaggi, mettendone in risalto gli aspetti umani, semplici e un po' contradditori, ma tutti comunque caratterizzati da una intensa carica emotiva.
Una narrazione lineare e piacevole, che scorre via con grande facilità, ma che fondamentalmente lascia nel cuore e nella mente sensazioni positive di tenerezza e di buoni sentimenti che rendono la lettura di questo libro un gradevole momento di distensione e di riflessione. Per gentile concessione dell'Autore, pubblichiamo qui di seguito una novella, "L'idillio", tratta dal libro di De Santis, dalla cui lettura vi farete una idea di come "Il dito nella piaga" possa rappresentare, per voi e per i vostri amici, un buon approccio letterario al mondo che costituisce il nostro universo lavorativo quotidiano.



Una soave fragranza di gelsomino accompagnava il suo passaggio spedito sotto le querce nodose dai rami contorti e dal fogliame inodore. A passetti brevi e rapidi incedeva leggera attraverso il viale che dal parcheggio portava agli uffici della banca presso cui era impiegata. Visino tondeggiante, perfetto nei lineamenti delicati, carnagione lattea, labbra carnose, guance rosee, nasino greco, occhi cerulei, capelli fulvi, movenze da fatina. Sembrava discreta e riservata, forse anche timida. Lo sguardo basso, camminava facendo attenzione a dove poggiava i piedini, incastonati nelle scarpette graziose, evitando piastrelle sconnesse e rimasugli di escrementi canini. Come fosse assente, nulla riusciva a catturare la sua attenzione.
Incrociava gente che l'ammirava silente, ma lei non se ne curava e procedeva a passi felpati verso il suo posto di lavoro. Ogni mattina alla stessa ora Carlo ne aspettava il passaggio sulla soglia del suo ufficio, ansioso, trepidante come un adolescente implume al suo primo appuntamento, solo per guardarla, per ammirarla, per bearsi di quella bellezza angelica, resa più attraente da una sorta di ritrosia primitiva, da cerbiatta impaurita.
E quando i suoi occhi riuscivano ad incrociare quelli di lei, per un attimo soltanto, pur se trafitto in profondità come da aculei dolorosi, avvertiva una sensazione di turbamento stoicamente appagante. Restava lì estasiato e rapito, inebriato dalla impercettibile nuvoletta di essenza al gelsomino che l'aveva lambito e stordito.
Carlo era un bell'uomo, non più giovane ma pieno di vitalità, fine e distinto, sempre ben vestito, che gestiva una agenzia di pompe funebri sul viale denso di negozi e di vetrine sfolgoranti. Non era aduso bighellonare in strada o intrattenersi sull'uscio ad osservare il passeggio sempre intenso. Preferiva trascorrere le frequenti pause che il lavoro gli concedeva nel suo ufficio, a leggere o a scrivere articoli su argomenti professionali per le riviste del settore alle quali collaborava.
Ma quando arrivava l'ora in cui sapeva che quell'angelica visione avrebbe transitato con il suo portamento, austero e pavido insieme, davanti al suo ufficio, non poteva non appostarsi per godere sia pure per pochi attimi di quella incomparabile bellezza. Animato dalla segreta speranza che un qualche accadimento straordinario potesse metterlo a diretto contatto con la celestiale beltà o che quegli sguardi furtivi e fugaci potessero tramutarsi in lunghe contemplazioni di completo ed intenso abbandono.


Una mattina di incipiente primavera Carlo attese invano il suo passaggio. Dopo un'ora trascorsa nella vana speranza che si trattasse di un banale ritardo, Carlo, deluso, rientrò nel suo ufficio e, seduto alla sua scrivania, non riusciva a concentrarsi né sul lavoro né sull'articolo che doveva scrivere. I dubbi su quella inaspettata ed inconsueta latitanza lo angosciavano. Paventava che i suoi quotidiani sguardi avidi di voluttà avessero spaventato la cerbiatta timida al punto da indurla a cambiare parcheggio e quindi il percorso per raggiungere l'ufficio, che la banca l'avesse trasferita in altra agenzia in città se non in altra sede.
Immaginava come sarebbe stata vuota la sua vita, privata di quell'appuntamento che quattro volte al giorno si ripeteva ritualmente e lo teneva in uno stato di ansia febbrile. Se solo avesse conosciuto il nome della fatina si sarebbe recato in banca a indagare…
La giornata trascorreva in un clima di nervosismo inspiegabile, alle cui origini Carlo non percepiva che quella desolante assenza. Neppure il giorno successivo lei passò davanti all'ufficio, sul viale, dove un uomo smarrito l'aspettava invano; e il giorno dopo e l'altro e quell'altro ancora. Ogni mattina Carlo diceva a se stesso: questa è l'ultima volta, se non viene oggi sicuramente non verrà più e poi, quand'anche venisse, cosa m'importa di questa sconosciuta bella e irraggiungibile?
Scacciava dalla mente i pensieri che lo assillavano e lo tormentavano ma essi tornavano in un susseguirsi altalenante di dubbi, di ipotesi, di incertezze, che inguaribilmente terminavano nelle deludenti attese. I giorni passavano inesorabili e lenti, scanditi dalla quotidianità del lavoro e dalla mai sopita speranza di rivederla apparire come miraggio nel deserto in tutta la sua sfolgorante e soave bellezza.


Era un pomeriggio splendido e sul viale la gente passeggiava serena e tranquilla alternando vivaci chiacchierate a lunghe soste davanti le vetrine dei negozi stipate di nuove proposte estive. Carlo, alla sua scrivania, era assorto nel prendere appunti per un articolo che avrebbe buttato giù nei giorni successivi, fin quando l'idea che gli frullava in testa avrebbe preso corpo.
Era meditabondo e non si accorse dell'uomo che era entrato silenziosamente nel suo ufficio luminoso e sobriamente arredato, finché non udì una voce sommessa che chiedeva con insistenza: "Permesso? Permesso?". Si alzò di scatto dalla scrivania e con la voce rotta, dopo il prolungato silenzio, invitò: "Prego, prego, si accomodi".
Lo sconosciuto, mentre gli si avvicinava chiese: "Senta, io cerco il signor Carlo". "Sono io, - rispose Carlo riguadagnando la poltrona dirigenziale dietro la scrivania, ed invitando con un gesto l'interlocutore a sedersi sulla poltroncina dall'altro lato - che posso fare per lei?". "Si… deve… deve… dovrebbe… - e così farfugliando le lacrime copiose gli inondarono le guance - ho perso mia figlia; è morta in ospedale due ore fa; una bambina di sette mesi; non so come… è morta; non c'è più; mia moglie è a letto malata; un mio amico mi ha consigliato di rivolgermi a lei; la conosce; noi siamo forestieri; non sappiamo…; mi ha assicurato che lei è una persona per bene, corretta, istruita, non uno dei soliti sciacalli come quelli che ho già incontrato in ospedale".
"Certo, certo, - intervenne Carlo - cerchi di calmarsi; capisco la situazione, ma è necessario che si calmi; le posso offrire qualcosa? Un the, una camomilla?".
"No grazie! Sono calmo, tergendosi le lacrime col dorso della mano - ma mia figlia… il mio angioletto adorato… è su quello squallido marmo di un tavolaccio dell'obitorio avvolta in un lenzuolo che sembra di carta da imballaggio…!"
. "Capisco, - interloquì Carlo - ora interveniamo noi e sistemiamo tutto nel migliore dei modi".
"No, no! Non deve intervenire subito. Ho un grosso favore da chiederle: mia moglie vorrebbe parlare con qualcuno della sua impresa prima di…; lei mi capisce…, ma è a letto ammalata, come dicevo, e se fosse possibile dovremmo… potremmo andare a casa mia, così lei o un suo collaboratore potreste sentire quali sono i suoi desideri…; mia moglie ha idee chiare e molto personali"
.


Si misero in macchina e si recarono a casa dell'interlocutore, e durante il percorso lui continuò ad illustrare a Carlo le vicissitudini che stava vivendo. L'auto si fermò davanti ad un complesso residenziale in una delle zone nuove della città. Al primo piano entrarono nell'ampio salotto soggiorno di un appartamento che si intuiva grande e arredato con finezza di gusti.
Carlo fu fatto accomodare in una delle poltrone dal padrone di casa che si allontanò imboccando un corridoio. Ne tornò dopo un po' di tempo, invitando Carlo a seguirlo in camera da letto al fine di prendere gli accordi definitivi sull'espletamento dell'incarico affidatogli.
Seduta sul letto, abbandonata in mezzo ad una moltitudine di cuscini multicolori, vestita di una vestaglia color rosa pallido, che dava risalto al visino rotondo sofferto e macilento, c'era lei, colei per la quale Carlo aveva atteso e trepidato.
Appena la riconobbe si sentì sprofondare, ma anche invadere da una leggerezza che gli avrebbe consentito di volare fra le nubi; il cuore gli si era fermato eppure lo sentiva battere tumultuosamente nel petto; le sue labbra paralizzate non riuscivano a proferire parola; la mente stordita non connetteva eppure una immensa felicità l'aveva pervaso e rinfrancato.


Dopo i lunghi attimi di sbigottimento, per la prima volta ascoltò la voce che proveniva da quella eterea visione; una vocina limpida e cristallina che lo affascinava e lo inebriava. Non osava interloquire per evitare di interrompere quella cascata deliziosa di modulazioni che sgorgava incessante da quella boccuccia incantevole, come acqua purissima zampillante dalla fonte.
Si beò lungamente del colloquio volto a fissare i dettagli della mesta cerimonia, colloquio che lui prolungò volutamente, con tutti gli artifizi immaginabili, al fine di godere il più a lungo possibile della compagnia di quella donna deliziosa, ma anche per fare sfoggio della sua cultura e delle sue capacità dialettiche onde impressionare favorevolmente la sua interlocutrice, nonché per porre in risalto la diversità fra lui, persona colta e preparata, ed il marciume che caratterizza la moltitudine degli operatori funebri.


Nei giorni successivi Carlo inventava le scuse più impensate per telefonare alla bella signora della quale ora, finalmente, conosceva anche il nome. Voleva parlare con lei solo per sentire la sua voce, per inebriarsi del suo profumo che gli sembrava percepire anche attraverso il telefono, per sentirla vicina, intensificare i contatti ed approfondire l'amicizia.
Dopo oltre un mese, un sabato mattina, inattesa e graditissima, si presentò nell'ufficio di Carlo, guarita e smagliante, pur se pervasa da una mestizia dignitosa.
"Sa, - gli spiegò - come lei ha notato io non ho potuto partecipare al funerale e siccome mio marito lavora anche il sabato mentre io sono libera solo in questo giorno, ho pensato che lei è l'unica persona alla quale potevo chiedere la cortesia di accompagnarmi al Cimitero perché mi indichi il posto dove hanno sistemato la mia bambina".


Carlo, frastornato e felice, non chiedeva di meglio che poter godere un po' di tempo della sua vicinanza. La fece accomodare in macchina e lentamente, percorrendo la strada più lunga possibile, la condusse là dove passato e presente si confondono nella simbiosi mistica simboleggiata dai cipressi proiettati verso il cielo.
Giunti che furono nella cappella, Carlo le indicò il loculo nel quale riposavano per l'eternità le spoglie della bambina. Lei si inginocchiò, reclinò la testa e si raccolse in preghiera, mentre Carlo si perdeva nell'ammirazione della fluente chioma di lei dalla quale emanavano delicati effluvi al gelsomino.
Improvvisamente proruppe in un pianto dirotto e fu l'occasione propizia per Carlo per cingerla col braccio e sussurrarle parole di conforto. Finalmente era fra le sue braccia, finalmente le potette accarezzare con dolcezza i morbidi capelli fulvi, finalmente il sogno si avverava, il sogno di starle vicino, quasi di sentirla sua.
Lei alzò la testa, volse lo sguardo in giro nella cappella, si asciugò le lacrime, guardò il loculo di fianco a quello della sua bambina e chiese a Carlo: "Chi è quel bimbo?".
Carlo esitò a lungo prima di rispondere. Poi, con voce accorata: "E' mio figlio; anche lui aveva sei mesi quando morì!".
Lei si alzò, lo guardò dritto negli occhi e, in un sussurro di dolorosa compartecipazione, esclamò: "Non sapevo, non immaginavo".
Poi, dopo una lunga pausa di meditazione, soggiunse: "Credevo di sapere tutto di lei, come lei sa di me, ma non mi ha mai detto… Lei fa un lavoro ignobile, disprezzato dalla gente, ma lo svolge con tanta umanità e compostezza…! Lei conosce il dolore e sa come pesa questo fardello… che non si placa mai…! Ora i nostri figli sono insieme a scorazzare nelle infinite praterie del Cielo… mano nella mano…! Vuole, anzi vuoi, darmi la mano?".
Carlo protese le mani, afferrò quelle di lei, le strinse, le portò alle labbra e le baciò a lungo: sapevano di gelsomino! Avrebbe voluto piangere.
Disse soltanto: "Cara!".
 
Alfonso De Santis
 

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