Se la lettera di Domenico Lapolla, pubblicata sul numero di gennaio 2004 di OLTRE MAGAZINE e scritta con la rabbia nel cuore ma con molta moderazione, mi fosse pervenuta prima che redigessi l'articolo di dicembre sulle manchevolezze della Feniof, avrebbe potuto integrare l'argomento o, addirittura, sostituirlo egregiamente. È il grido di dolore di un piccolo impresario di provincia che si sente circondato e tuttavia, pur trovandosi in grave pericolo di soccombenza, non demorde e non intende dichiararsi sconfitto. Spera ancora che qualcuno o qualcosa cambi il corso degli eventi negativi, chiede aiuto ma non trova chi si impegni a soccorrerlo.
Questa, a mio modesto parere, è la fine ingloriosa alla quale sono destinate le nostre piccole entità commerciali, se chi di dovere non troverà la strada per intervenire con provvedimenti radicali atti a scongiurare le distorsioni e gli abusi che imperversano nel settore funerario, volti all'unico fine di creare confusione onde riuscire, usando anche subdoli sotterfugi, a prevaricare i concorrenti nella acquisizione dei servizi. Il nocciolo della questione è tutto qui: soverchiare il rivale con tutti i mezzi a disposizione, al limite del lecito, calpestando valori e principi, pur di sottrargli - anche fraudolentemente - porzioni di mercato. E, per attirare su di sé l'attenzione della collettività, distraendola dai concorrenti, tutte le azioni sono buone, tutti i mezzi diventano usabili, tutte le strade percorribili, anche quelli dell'equivoco e dell'espediente, se non proprio della ingannevolezza.
Ricordo i tempi non molto lontani in cui nella mia città vigeva la privativa. L'appaltatrice comunale usava pubblicizzare la sua attività concessoria con una frase sibillina, che suonava più o meno come "unica concessionaria comunale per i trasporti funebri", guardandosi bene dallo specificare che la concessione in esclusiva era limitata ai soli trasporti urbani e che, quindi, ogni altro genere di trasporto (extraurbano o/e internazionale) non era sottoposto ad alcun vincolo e pertanto del tutto affidato alla libera scelta. Perché lo faceva? Per ingenerare confusione nella platea degli ignari potenziali utenti i quali, leggendo quella frase pubblicitaria, venivano indotti a pensare che tutti i tipi di trasporto funebre fossero soggetti all' imperio dell'Ente locale, di cui la suddetta concessionaria era l'unica beneficiaria. La lealtà, la chiarezza, la correttezza, messe sotto i piedi, al solo fine di prevaricare, di strumentalizzare la propria situazione privilegiata nel tentativo di renderla preminente e, contemporaneamente, di nuocere il più possibile ai concorrenti. Se poi tali posizioni trovano spazio in altri settori più incisivi come la gestione di cimiteri o di camere mortuarie ospedaliere, da privilegiate diventano dominanti ed assumono la veste di vere e proprie "armi improprie", che possono anche riuscire ad annientare commercialmente gli avversari. Nelle grandi città c'è il "vezzo", da parte di talune imprese private, di pubblicizzare i propri prezzi definendoli "comunali", perché, con tale dizione a dir poco equivoca, spererebbero di vanificare o, quanto meno, di contrastare ad armi pari la concorrenza esercitata dalle imprese pubbliche le quali, a loro volta, sfruttano la possibilità di esercitare la propria attività al di fuori delle regole mercantili, per praticare prezzi "sociali" che, sovente, si ripercuotono negativamente sui bilanci già disastrati delle pubbliche amministrazioni.
Il padre dell'autore della lettera era un galantuomo, una persona dabbene, un operatore serio, corretto e garbato, che svolgeva il suo lavoro in assenza di intrallazzi e di commistioni. Lo conoscevo personalmente e, come tanti, era un convinto assertore dell'associazionismo, quindi socio Feniof. Ora il figlio, subentrato nella conduzione dell'attività, non lo è più - come dichiara - perché non crede più nelle promesse formulate dai dirigenti della Federazione, non spera più negli impegni assunti dalla associazione di categoria. E ne ha ben donde. Si sente tradito e deluso ed affida il suo grido di dolore alle pagine di questa rivista perché ognuno possa condividerlo, perché la sua rabbia diventi la rabbia di tutti i piccoli impresari come lui, che anelano allo svolgimento del proprio lavoro in serenità, protetti, difesi e tutelati da chi li rappresenta e dovrebbe battersi per ottenere dagli organismi governativi leggi che impediscano ai furbastri di nuocere a chi agisce lealmente, leggi che proibiscano ai prevaricatori di aggirare le norme per schiacciare impunemente chi si attiene ai comportamenti corretti che la nostra professione tanto delicata richiede.
Sarà possibile? Non credo proprio, se chi, a suo tempo ed in ogni occasione, avendo assunto l'impegno di "combattere con tutti i mezzi informativi le azioni di accaparramento di servizi", ha dimenticato quella solenne promessa e non sfrutta l'arma dell'informazione - accessibile a tutti - per ridurre il dilagare del procacciamento che avviene maggiormente nei fertili "terreni di caccia" quali sono i nosocomi, in assenza di regole, in spregio alla decenza, senza alcun rispetto per le famiglie colpite da situazioni dolorose e, quel che è peggio, con la complice latitanza delle autorità preposte. Constatato che le nostre associazioni di categoria non hanno la forza di ottenere la promulgazione di leggi che estromettano i filibustieri dagli ospedali, l'azione informativa diretta al pubblico, già di per sé potrebbe costituire un validissimo supporto alle imprese sane e rispettose della deontologia professionale. È ovvio che vi sarebbero dei costi da sostenere ma, come si evince dalla lettera del giovane Lapolla, molti impresari, anche piccoli, sarebbero disponibili ad accollarsene l'onere (vedasi il citato comunicato pubblicato su Famiglia Cristiana) purché la campagna informativa fosse articolata, chiara e, come dicevo dianzi, capillare. Certo non é pensabile di pubblicizzare le migliaia di aziende presenti sull'intero territorio nazionale, però sarebbe realistico ipotizzare, per esempio, l'introduzione di una simbologia, una sorta di "marchio di qualità", oppure, meglio ancora, ricorrere ad una specie di classificazione delle imprese, attraverso l'attribuzione di un contrassegno particolare che ne garantisse le qualità, non solo in termini di capacità operativa, ma anche e principalmente in fatto di rispetto di certe norme che potrebbero essere quelle del Codice Deontologico già formulato molti anni or sono e sottoscritto (rispettato, poi ... !) da pochissime imprese. Un po' come avviene nel settore alberghiero nel quale il numero di stelle certifica il possesso di certi requisiti. Nel nostro caso, forse, basterebbe una sola stella a garanzia del rispetto del Codice deontologico. Quindi impresa con la stella sarebbe quella che sottoscrive e rispetta veramente il Codice; impresa priva di stella sarebbe quella non impegnata. È solo un esempio banale. Ed è ovvio che un simile o analogo progetto di rilevanza nazionale dovrebbe essere gestito da una struttura organizzativa, da far nascere in stretta sinergia fra le nostre associazioni rappresentative, la quale attribuirebbe la stella solo dopo avere verificato concretamente "sul campo" l'attendibilità degli impegni assunti dalla impresa richiedente. La stessa struttura potrebbe anche gestire l'interscambio di servizi e di svolgimento pratiche, sulla falsariga di quanto già avviene, con risultati eccellenti, nel comparto dei fioristi, dove in tempi brevi si realizzano consegne di omaggi floreali sull'intero territorio nazionale. Oggi, con la tecnologia a disposizione e con la possibilità di diramare e di ottenere informazioni in tempo reale, sarebbe possibile tutto ciò e molto di più, se solo fossimo animati dalla volontà di crescere, se solo si instaurasse fra gli operatori settoriali un clima di cordiale collaborazione e di fattiva solidarietà, avulso dall'autolesionismo concorrenziale, che inducesse ad abbandonare la conflittualità permanente e la pervicace voglia di prevaricazione. Si potrebbero fare grandi cose e ambire a traguardi vantaggiosi per tutti, piuttosto che perdersi dietro le solite vacue bagattelle di cortile e le sterili polemichette da due soldi, affidate alle sorpassate dichiarazioni d'intenti, fatte di promesse che lasciano il tempo che trovano, sia nelle cosiddette assemblee "generali" che nei convegnucci locali. Per risalire la china occorrono manager e sostanze, ma soprattutto occorre una grande spinta propulsiva fatta di idee concrete partorite dalle organizzazioni nazionali di rappresentanza. Occorre coraggio. Occorre innovazione. Ma soprattutto occorrono nuovi uomini, nuovi dirigenti, nuove mentalità.
L'ho detto e lo ripeterò fino alla nausea: se in una città come la mia si verificano 1.400/1.500 decessi l'anno ed operano 14 imprese, chi dovrà provvedere alle esequie? Quei 14 operatori. Non altri. Dunque a cosa serve correre nella forsennata "caccia al morto" attraverso commistioni, informatori prezzolati, inseguimenti delle ambulanze, occupazioni di camere mortuarie e mille altri stratagemmi abominevoli e dispendiosi? Perché alla sola percezione di un probabile decesso o al lontano fischiare di una sirena, molti operatori funebri mettono in moto quella perversa macchina volta all'accaparramento? Non è più semplice, più comodo, sopratutto più dignitoso starsene in casa propria ed attendere la eventuale chiamata scaturita dalla libera scelta della famiglia? Non sarebbe anche più remunerativo, non solo in termini monetari, ma in termini di decoro, di rispetto acquisibile? Non solo per se stessi, ma a vantaggio dell'intera categoria? Che cosa spinge questi prevaricatori ad attivare i loro loschi traffici a detrimento dei colleghi morigerati, se poi, alla fine, il danno morale e sociale si abbatte su tutta la categoria? L'opinione pubblica quasi ci detesta, i media ci irridono. Se a questo isolamento aggiungiamo la constatazione che le autorità governative ci ignorano o, comunque, non pongono sufficiente attenzione alle problematiche che ci affliggono e, quindi, ci trascurano, abbiamo il quadro completo della situazione, dovuto anche ai nostri comportamenti che ci hanno guadagnato la triste fama di sciacalli. I Comuni intervennero e tuttora sono presenti nel comparto con le loro aziende per mitigare la furia devastatrice della mercificazione del "caro estinto" che, specie nelle città e nei grandi ospedali aveva assunto dimensioni allarmanti. Casi di arresti di personale sanitario e operatori funebri, avvenuti nel corso degli anni, lo testimoniano. Il Ministero non tiene più conto delle nostre associazioni di categoria e sceglie i suoi "esperti" fra professionisti che con il nostro settore non hanno nulla in comune. Le proposte o i disegni di legge che ci riguardano giacciono nei cassetti delle scrivanie ministeriali e diventano vecchi prima ancora che vengano esaminati. La legge 130/2001 aspetta sempre i decreti attuativi perché diventi operante. Sono trascorsi tre anni e tutti se ne infischiano. E mentre le Regioni sguazzano in bizzarri tentativi di autoregolamentazione farfugliata, il "nuovo" regolamento nazionale è un fantasma che vaga nei corridoi parlamentari alla ricerca (vana) di patrocinatori o garanti. Ma chi ha l'ardire di patrocinare le nostre ragioni? Chi si sente di garantire per noi? Chi vorrà mai impegnarsi per noi? Se pure noi stessi rifiutiamo di fornire un sia pur minimo impegno di civile emancipazione? Se non siamo capaci di accendere un barlume di speranza di cambiamento?
Potremmo essere una specie di "casta" privilegiata e, invece, siamo considerati come feccia, unanimemente bistrattati. Servirà mai il grido di dolore di uno sconosciuto operatore pugliese come Domenico Lapolla? O quelli dei tanti Lapolla, che mai giungeranno sulle pagine delle nostre riviste e negli ordini del giorno delle assemblee settoriali, perché destinati a restare strozzati in gola?