- n. 2 - Marzo/Aprile 2023
- Legale, fiscale
Fine vita, il caso di Paola
Richiesta l’archiviazione del caso dal Procuratore di Bologna Giuseppe Amato. Se confermata, sarebbe un precedente importante per l’attuazione della legge.
Il 9 febbraio si è riaperto un capitolo importante, oserei dire cruciale, nel dibattito sul fine vita già più volte da noi trattato su questa rivista.
La vicenda che riapre il dibattito sulla spinosa questione è quella che vede protagonista la signora Paola, malata da tempo, che ha richiesto supporto concreto per potersi recare fuori dall’Italia e procedere al proprio suicidio assistito per mettere fine a lunghe sofferenze.
Ma andiamo con ordine.
America e Europa
Felicetta Maltese, Virginia Fiume e Marco Cappato dell’Associazione Coscioni, coadiuvano, in Svizzera, Paola, una signora di Bologna 89enne malata di Parkinson, in quello che viene definito suicidio assistito. Il 9 febbraio scorso gli stessi Maltese, Fiume e Cappato vanno poi ad autodenunciarsi. Dopo questo fatto i riflettori sono di nuovo puntati sulla Procura di Bologna. È in questo frangente che
il procuratore Giuseppe Amato si espone, prende posizione e in meno di 5 giorni dalla denuncia, chiede l’archiviazione del fascicolo. L’istanza di archiviazione è netta: la notizia di reato sarebbe infondata, l’argomentazione è importante e pone le basi per una interpretazione estensiva di quelle che sono le norme di riferimento.
Le norme
Per capire meglio il caso di Paola partiamo allora dalle norme.
La l.g. 217/2019 all’art. 2 ammette che “
Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente”.
Ciò non di meno, l’art. 580 c.p. dispone che: “
Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima”.
La Corte - nell'ambito del procedimento penale aperto a Milano, nella nota vicenda relativa a Fabiano Antoniani (dj Fabo, che rimase tetraplegico a seguito di un incidente e decise di mettere fine alle sue sofferenze nel 2017 con il suicidio assistito, facendosi accompagnare in Svizzera da Marco Cappato) di cui abbiamo trattato in precedenti articoli su questa rivista (N.3 Marzo/Aprile 2022; N.6 Novembre/Dicembre 2019) - ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli articoli 2, 13 e 32, comma 2, della Costituzione, l'articolo 580 del Cp, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli articoli 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Per fare chiarezza, in quell’occasione la Corte sostanzialmente ha detto che non è punibile chi coadiuva qualcuno al suicidio solo e soltanto ove l'aspirante suicida si identifichi in una persona:
- affetta da una patologia irreversibile
- fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia
- tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti
- capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
È qui che la Procura di Bologna aggiunge un tassello perché – come si legge nella richiesta di Archiviazione del PM – nel caso di specie la signora era affetta da una patologia irreversibile, il Parkinson, che però non implicava l'utilizzo di mezzi di trattamento di sostegno vitale, essendo il mantenimento in vita, pur nelle acclarate, ingravescenti condizioni, non condizionato da tali metodiche.
Il PM va oltre quello che potrebbe essere, ad una prima lettura, un limite all’applicazione del principio affermando che l’interpretazione di quel punto c) - cioè i mezzi di trattamento - non può che essere ampia (così citando il caso Wiheline, quello di Genova ed altri a supporto di tale tesi) comprensiva di tutti i trattamenti farmacologici che se interrotti potrebbero portare - anche se con tempi lunghi - alla morte del paziente.
Una lettura diversa - aggiunge la Procura - della stessa norma comporterebbe la necessità di sollevare una questione di costituzionalità dell'art. 580 c.p., poiché la condizione dell’essere “
tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale” potrebbe escludere coloro che non sono soggetti a tali trattamenti e che soffrono di patologie irreversibili e intollerabili, così violando il principio di uguaglianza che la nostra Costituzione pone a baluardo dell’intero impianto normativo.
Se la richiesta di archiviazione fosse accolta dal Giudice delle Indagini Preliminari, sarebbe certamente un precedente dirompente per l’attuazione della l. n. 219/2017.
Nota: l’articolo è stato scritto nelle more della decisione del GIP.L’associazione Luca Coscioni
L’associazione Luca Coscioni fu fondata dallo stesso Coscioni, un economista malato di Sclerosi Laterale Amiotrofica, nel 2002. Dalla morte di Coscioni nel 2006, l’associazione no profit ha portato avanti i suoi principi a favore delle libertà civili e dei diritti umani impegnandosi attivamente per l’assistenza personale autogestita, a favore delle scelte di fine vita, sulla ricerca sugli embrioni e l’accesso alla procreazione medicalmente assistita fino alla legalizzazione dell’eutanasia, l’accesso ai cannabinoidi per scopi medici e il monitoraggio delle leggi in materia di scienza e auto-determinazione.
Del direttivo fanno parte Mina Welby (moglie di Piergiorgio Welby, tra i primi a lottare per il rifiuto all’accanimento terapeutico e il diritto all’eutanasia), Michele De Luca (professore ordinario del Dipartimento di Scienze della Vita e Direttore del Centro di Medicina Rigenerativa dell’Università di Modena e Reggio Emilia) e lo stesso Marco Cappato.
Avv. Alice Merletti & Avv. Elena Alfero