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LA FELICITÀ IN UN REQUIEM

Pochi musicisti incarnano meglio di Gabriel Fauré (1845 - 1924) una certa idea del "gusto francese", per lo meno così come si è costituita, appunto, a cavallo fra i due secoli.
Buon gusto, raffinatezza, discrezione, tecnica e cultura (non solo musicale) impeccabili, mancanza assoluta di enfasi e retorica, la sensibilità e l'eleganza di chi ben sa di rivolgersi a cerchie ristrette e selezionate (anche socialmente, oltre che culturalmente) di interlocutori.
Noi ascoltiamo la musica di Fauré, in particolare quella da camera, e soprattutto il genere in cui eccelse, le chansons per voce e pianoforte, ed è pressoché inevitabile immaginarla eseguita nei salons frequentati dai personaggi proustiani, sentirla a ragione, insieme a poche altre, come la più vera colonna sonora della Recherche du temps perdu.
Fauré raggiunse, nonostante le proteste di ambienti musicalmente conservatori, una posizione che in Francia ha sempre avuto il massimo prestigio ufficiale, quella di direttore del Conservatorio di Parigi, e la tenne per molti anni; dal compositore titolare di quel ruolo ci si sarebbe potuto aspettare una produzione che affrontasse i grandi generi musicali solenni, grandiosi e più "ufficiali" appunto, come la sinfonia, il concerto, il melodramma, le grandi composizioni sacre sinfonico-corali; poco o nulla, invece, di tutto questo uscì dalla sua penna, e quel poco non è particolarmente memorabile, con l'unica decisiva eccezione che ora vedremo.
Qual è questa eccezione, e perché ci interessa in questa sede? Si tratta di una messa da Requiem. Il genere è dei più illustri, e da un secolo a questa parte (siamo negli ultimi anni dell'Ottocento) molti dei più grandi compositori vi si sono cimentati, lasciando il segno del loro genio, da Mozart a Cherubini, da Verdi a Brahms; gli ultimi due sono per Fauré dei contemporanei carichi di anni, di fama e di gloria…
Nell'affrontare un compito così impegnativo Fauré decide di non rinunciare in nulla alla sua personalità; questo vogliono dire in realtà certe sue dichiarazioni apparentemente un po' evasive: "Mon Requiem a été composé pour rien (…) pour le plaisir si j'ose dire", ma anche "j'ai cherché à sortir du convenu". E in effetti nulla della tragicità, della drammaticità passionale, a volte, che caratterizza la tradizione del Requiem musicale è qui presente: la morte, nella concezione del compositore, è vista come "une delivrance heureuse, une aspiration au bonheur de l'au-délà, plutôt que comme un passage douloureux".
Questo in effetti è il punto decisivo, ed è immediatamente evidente a chiunque ascolti questo Requiem dolcissimo, quasi mai solenne, in cui come è ovvio manca il Dies irae; in cui, cullati da brani come il Sanctus, si giunge felici al congedo, non a caso affidato alle stupende parole del Deducant te angeli: "che gli angeli ti portino in Paradiso".
 
Franco Bergamasco

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