Rotastyle

A San Luis Potosì

Expo Funeraria Mexico

Dal 1 al 3 marzo 2009

Il viaggiatore che dopo una traversata transatlantica di dodici ore giunga all’imbrunire nella capitale messicana si trova di fronte ad uno degli spettacoli più stupefacenti che si possano immaginare. In una serata tersa, quale mai avevamo avuto la fortuna di incontrare in occasione dei precedenti ed ormai alquanto numerosi viaggi in terra azteca, le luci della città sembravano, dall’alto, distendersi all’infinito creando quasi un merletto luminoso che si adagiava, sposandole, sulle colline che circondano Mexico City. Si tratta di un paesaggio modellato dall’uomo su di un supporto naturale che seduce per la sua grandezza e che immediatamente fa pensare a tutti i problemi pratici che si pongono, anzi che si impongono, a chi deve occuparsi della gestione di una così smisurata città la cui popolazione, i “chilangos” - così vengono chiamati gli abitanti della capitale - supera ormai largamente i venti milioni (sui centosette che risultano, dall’ultimo censimento i cui dati sono stati resi noti pochi giorni orsono, vivere in Messico) facendone così la seconda megalopoli del mondo. Come se un terzo della popolazione italiana vivesse nello stesso luogo! I problemi di approvvigionamento (acqua, luce, gas), di circolazione, di inquinamento ed anche di insicurezza si impongono, nella loro incontestabile e tangibile realtà, non appena il piede tocca terra. Come accade, dopotutto, anche in alcune zone d’Italia. Non solo, ma basta aprire i giornali ed addentrarsi nelle pagine di cronaca locale per trovare similitudini flagranti con la vita del nostro Paese anche se, in certi casi, su scala diversa. Tanto per fare un esempio, ogni giorno viene fornita dalla stampa la contabilità dei morti ammazzati nelle guerre tra i cartelli di narcotrafficanti. Un giorno quindici, un altro venticinque, un altro ancora quaranta. Accanto al parziale giornaliero figura il totale cumulato dal primo gennaio. Ad inizio marzo la conta aveva già superato le duemila unità. Si tratta, lo ripetiamo, “solo” dei dati relativi alle guerre per il controllo del narcotraffico. A fine anno, su questi ritmi, le dodicimila vittime saranno facilmente superate. Grossi impegni in vista, dunque, per i medici legali i quali, oltre che occuparsi dei “narcos”, dovranno poi eseguire le loro perizie su tutti gli altri “arrivi” dovuti agli incidenti stradali, alla delinquenza comune, alle risse di origine non criminale (spesso conseguenza dell’eccessiva ingestione di “bebidas embriagantes” come tequila, mezcàl e pulque, bevanda tradizionale alcolica, quest’ultima, densa e lattiginosa ottenuta per fermentazione del succo del maguey, varietà di agave dalla cui distillazione si ricavano anche i due precedenti superalcolici). Tutto ciò ci rimanda a quanto accadeva qualche anno fa, seppur su scala minore, in alcune città italiane. Ma là dove le similitudini si fanno ancora più flagranti, anche in termini di valori assoluti, è nel campo pubblico e soprattutto in quello delle remunerazioni di politici e di funzionari. Il caso più recente è quello dei membri dell’IFE (Istituto Federale Elettorale) che si sono “sponte loro” aumentati gli emolumenti di un buon 50% da un giorno all’altro adducendo ragioni “costituzionali” e raggiungendo così la modesta somma di 330.000 pesos al mese. È ben vero che di fronte alla unanime (stampa, organizzazioni rappresentative, ...) levata di scudi nazionale i nostri hanno fatto marcia indietro. Non nel senso di sopprimere “sic et simpliciter” l’abusivo privilegio autoconcessosi, ma, la prudenza non essendo mai troppa, “sospendendo”, bontà loro, per un anno gli effetti della decisione che entrerebbe così in vigore l’anno prossimo. Nel frattempo i magistrati in pensione della Corte Suprema di Giustizia, il cui assegno mensile varia tra i 150.000 e i 250.000 pesos e che dispongono di un autista a vita oltre che di “tecnici” (utilizzabili anche per i lavori domestici), di assistenti e di una assicurazione sanitaria ai massimi livelli (il tutto a carico dello stato), continuano tutti (tranne uno) ad inviare note di ristorante (provenienti dai più rinomati locali messicani ed esteri) il cui totale, negli ultimi due anni e mezzo, ha raggiunto il mezzo milione di pesos, tutti, chiaramente, sborsati dall’erario e cioè dai contribuenti. I nostri eroi manifesterebbero uno spiccato tropismo per i locali “in” della capitale e delle località turistiche più note (Cancun, Puerto Vallarta, Acapulco, Cozumel, Ixtapa, Manzanillo, senza parlare di Vancouver in Canada), dove le loro preferenze si orientano (come dimostrato dalle fotocopie dei conti pubblicate in questi giorni dal quotidiano “El Universal” che da mesi sta conducendo una lodevole e tenace battaglia per la trasparenza) verso pesci pregiati, crostacei, struzzo (avestruz) e coccodrillo, il tutto innaffiato da vini, pare superfluo precisarlo, francesi o spagnoli e, ovviamente, dei migliori “crus”.
Il peso, per chi non lo sapesse, si sta svalutando giorno dopo giorno (il che, avviso chi ama viaggiare, rende i soggiorni in quel paese estremamente competitivi) ed oggi come oggi ce ne vogliono più di diciannove per fare un euro. Solo due anni fa ce ne volevano dieci! In altri termini i signori dell’IFE intascano 17.000 euro mensili in un paese dove l’affitto di un appartamento di 200 metri quadrati con numerose camere e bagni può valere attorno ai 500 euro mensili. Molto meno (200/300) nelle città di provincia. I prezzi alla vendita sono, evidentemente, proporzionali. Di che dare delle idee ai nostri pensionati, che potrebbero colà godere di un livello di vita elevatissimo con redditi che in Italia li obbligano, in molti casi, a fare acrobazie e sapienti calcoli per arrivare a fine mese. Anche perché il paese è bellissimo, le città ricche di storia e di arte, la vegetazione splendida, il clima gradevole, la cucina sontuosa, la popolazione meravigliosa e le distrazioni, tenuto conto del gusto immoderato ed insopprimibile dei messicani per la “fiesta”, perenni.
A parte gli stati dove operano i narcotrafficanti, quelli del nord confinanti con gli USA (Bassa California con Tijuana, Chihuahua con l’omonima città - molto meno tranquilla di quella dei ricordi di Mina - e con Ciudad Juarez, Sinaloa con Culiacàn e Tamaulipas con Nuevo - e non Nueva come cantava il “reuccio” Claudio Villa evocando il “Messico d’or” - Laredo), gli altri sono molto meno pericolosi, pur se l’industria del sequestro, anche quello spicciolo, sta prosperando un po’ dappertutto. Il fatto è che in quegli stati, dove ormai la criminalità organizzata tende a sostituirsi all’amministrazione legale (grossi problemi in vista per il presidente Calderòn, che gli USA spingono ad un intervento più deciso anche perché il narcotraffico è diretto soprattutto verso gli Stati Uniti), vi sono sparatorie serrate, vere e proprie battaglie cittadine a ranghi compatti, anche in pieno giorno, e talvolta ci scappa pure il cadavere innocente, quello del digraziato che si trova, senza alcuna colpa, centrato da una “bala perdida” proveniente da armi quasi tutte giunte dai vicini USA dove, come si sa, la vendita di tali giocattoli è praticamente libera. Con buona pace dei “gringos”, che da un lato lamentano lo strapotere dei “narcos” e dall’altro, grazie al lassismo in materia di circolazione d’armi favorito dal non rimpianto presidente Bush ed accoliti, se ne fanno “de facto” i collaboratori incontestabili. Il che permette ai malfattori di disporre di tutto l’arsenale necessario per potersi dedicare alle loro attività preferite alimentando, nel contempo, un lucroso traffico clandestino di tale artiglieria. In queste attività approfittano frequentemente della complicità di elementi corrotti, anche ai più alti livelli, delle forze dell’ordine. Non passa praticamente giorno che la stampa non ne parli. È entrato ormai nella storia il caso di Arturo Durazo, il capo della polizia di Città del Messico durante il governo di Lopez Portillo (1976-1982) che, con un salario settimanale di 65 dollari statunitensi, non solo era riuscito a farsi una scuderia di cavalli da corsa e a costruirsi lussuose residenze a Città del Messico, Zihuatanejo (già piccolo villaggio di pescatori vicino ad Ixtapa nello stato di Guerrero - quello di Acapulco) ed altre numerose località all’estero, ma aveva anche potuto accumulare confortevoli depositi bancari in Svizzera per il modico ammontare di 600 (sì, seicento!) milioni di dollari. Nuovo Cristo in terra, evidentemente, capace di moltiplicare non solo il pane ed i pesci, ma anche “y sobre todo” i dollari! A questo sconfortante panorama di corruzione si aggiunga il fatto che circa la metà (130.000 su 260/280.000) degli agenti federali che dovrebbero combattere la criminalità organizzata ha abbandonato negli ultimi tre anni il servizio raggiungendo, quel che è peggio, in moltissimi casi il campo della delinquenza, che di certo offre condizioni economiche molto più vantaggiose manifestamente legate, tuttavia, al maggior rischio di lasciarci le penne in un “tiroteo” (sparatoria).
Il messicano diciamo così “normale”, che poi rappresenta la grandissima maggioranza della popolazione, è invece gentile, premuroso, servizievole e di buon umore. Molto orgoglioso del proprio Paese (dodicesima economia mondiale, conviene ricordarlo), non nasconderà la propria riconoscente gratitudine a chi gli dice di amare, ed è il caso nostro, profondamente il Messico e con esso, ed in primo luogo, la sua gente. Gente, l’abbiam già detto in un articolo precedente, bellissima, ma di cui dobbiamo riparlare per ricordare, una volta di più, l’avvenenza delle donne, spesso generosamente fornite da madre natura “di tutto e di più” (ci si perdoni la concessione alla sciocca banalità della moda: passato il tempo di “quant’altro” e di “a prescindere”, siamo ora al “tutto ed al più”… in attesa della prossima manietta nazionale), e dei bambini frutto, in molti casi, di mescolanze dai risultati stupendi.
San Luis Potosì, capitale, con un milione di abitanti, dell’omonimo stato e situata circa 400 km a nord di Città del Messico, deve il suo nome al re di Francia San Luigi nonchè alla città boliviana di Potosì, ricchissima di miniere d’argento. Gli occupanti spagnoli, avendo trovato importanti giacimenti analoghi in quella zona del Messico (oltre che a San Luis anche a Zacatecas e a Guanajuato, la meravigliosa città universitaria, una delle più belle di tutta l’America Latina, nel contiguo stato dello stesso nome, che fino a pochi anni addietro forniva il 25% della produzione mondiale del prezioso metallo), pensarono bene di aggiungere il nome della città sudamericana, già notissima per i suoi giacimenti, nella denominazione del luogo. Non si dimentichi che i messicani non si considerano nè sudamericani nè centroamericani, ma veri nordamericani.
Comunque sia, San Luis è una delle città coloniali meglio conservate (assieme a Zacatecas, Guanajuato e alla capitale) anche se, ad onor del vero, bisogna dire che in tutti i centri urbani del paese si conservano tracce insigni della presenza spagnola soprattutto a livello degli edifici pubblici, dei conventi e delle chiese, esempio splendido di quel barocco ispanico tardivo spesso definito “churrigueresco”, dal nome di un architetto spagnolo (José Benito Churriguera) che ne fu il principale esponente. Dobbiamo perciò essere riconoscenti ai “gachupines” (termine insultante usato per definire i conquistatori della penisola iberica, che riportiamo evidentemente solo come curiosità storica anche se certe recenti ed improvvide uscite di alcuni esponenti politici spagnoli sul nostro paese potrebbero suscitare qualche sentimento di rivalsa visto il profilo basso che i nostri cugini hanno assunto da che la crisi mondiale ha colpito la Spagna più che gli altri anche, ed “in primis”, a causa di una economia fondata su una bolla immobiliare scoppiata e che ha portato il tasso di disoccupazione ai massimi livelli europei) per essere stati, nonostante gli eccessi, le ruberie e le stragi (a cominciare da Cortes, il cui nome fa ancor oggi comparire una smorfia di disgusto sul volto dei messicani), capaci di esportare un patrimonio culturale tuttora presente e che si trasmette in primo luogo tramite la pratica, in tutto il continente, della lingua di Cervantes parlata da più di mezzo miliardo di persone e che ne fa, dopo l’inglese ed il mandarino, la lingua più diffusa nel mondo. Come quasi tutte le città della Nuova Spagna (così - Nueva España - i “conquistadores” denominarono l’attuale Messico), anche San Luis nasce come “misiòn” e cioè una missione fondata dagli allora attivissimi, nell’opera di evangelizzazione, francescani. Oggi tutto sembra facile, ma pensare a come cinque secoli fa quei monaci, quei “frailes” (frati), arrivati dopo un viaggio lunghissimo e certamente ostile dal Vecchio Mondo, potessero costruire i loro conventi e le loro chiese in condizioni quasi impossibili fa riflettere sulla forza interiore ed esteriore che solo una fede solidissima può conferire a coloro che la fanno propria. Ancor oggi è commovente vedere, attraversando il Messico, isolate e sperdute tra i cactus e le agavi battute da un sole impietoso in un paesaggio dove si possono incontrare i “charros” (i cowboys locali), le minuscole e bianche “misiones”, tutte con la chiesetta e la campana, dove i nostri piccoli e grandi “eroi” portavano la parola nella quale credevano, incuranti dei disagi e solo mossi dal desiderio di aiutare, spiritualmente e materialmente, il prossimo spesso con il sacrificio della propria vita. È questa la chiesa che personalmente amiamo. Molto di più, va da sè, di quella dei felpati saloni vaticani o dei sussiegosi e mediatici cardinali che sembrano aver dimenticato (intervenendo quotidianamente, talvolta a proposito e molto più frequentemente a sproposito, su tutti i fatti della vita politica italiana) che nel 1870 c’è stato un venti settembre a Porta Pia!
È questa la chiesa, non soltanto cattolica romana, che ritroviamo, eterna, in molti paesi del terzo mondo e soprattutto in Africa. In quei luoghi, spesso inospitali, essa conduce una ammirevole ed oscura battaglia per il bene del prossimo, dando così un esempio altissimo ed occupandosi soltanto di coloro che soffrono. A loro va la nostra incondizionata e riconoscente ammirazione e, ove possibile, il nostro aiuto concreto.
La scelta degli amici Ildefonso Gonzalez e Gabriela Esquivel di organizzare (dopo Acapulco, Guadalajara, Monterrey, Leòn) Expo Funeraria Mexico a San Luis Potosì ci è parsa dunque particolarmente azzeccata. Non solo per il sito di cui s’é parlato pocanzi, ma anche perché la fine dell’inverno ci ha offerto condizioni climatiche invidiabili. Un cielo azzurro in permanenza con temperature notturne positive di pochissimi gradi (siamo, su tutto l’altipiano centrale, attorno ai 2.000 metri) che durante il giorno salivano a 25/27°. Il tutto con un tasso di umidità bassissimo e con un venticello che, come già ripetutamente detto in precedenti articoli, non può che rallegrare chi ha vissuto metà della sua vita sulle sponde dell’Adriatico triestino battute dalla “bora” prima di trasferirsi, per la restante metà, sulle rive, meno ventose ahinoi, della Senna.
Il Centro espositivo annesso al complesso alberghiero Maria Dolores è curato e funzionale, anche se non grandissimo. Del resto le dimensioni dell’esposizione non richiedono, oggi come oggi, spazi più ampi. In effetti gli espositori sono stati una cinquantina, messicani per la maggioranza.
Tra gli stranieri ricorderemo, tra le presenze istituzionali, Tanexpo, il cui stand è stato oggetto di enorme curiosità anche se, attualmente, i viaggi in Europa, visto il cambio, risultano per i messicani estremamente onerosi, nonchè la Nfda, la federazione americana che sta preparando l’esposizione di Boston a fine ottobre. L’amica Deborah Andres era presente accompagnata per l’occasione dalla frizzante sorella Alexis, che da vent’anni ormai vive nella capitale messicana dove spopola con il suo humour frutto di una mescolanza assai straordinaria che in queste sorelle, ufficialmente canadesi di Montreal ma che ora vivono rispettivamente a Milwaukee nel Wisconsin (USA) ed in Messico, unisce ascendenze scozzesi e cubane. E poi La Guia Funeraria spagnola (anche in versione messicana) con gli onnipresenti Carmen Olmeda e José Manuel Martin impegnatissimi quest’anno, ed aiutati dal figlio che vive in Messico, nell’animare colloqui e seminari collaterali molto frequentati dai visitatori.
Tra i produttori esteri abbiamo visto la Matthews, capeggiata dal rappresentante locale Lucas de Palacio, giunta dalla vicina Florida con i suoi forni (All e IEE) e la Lindberg Argentina, azienda egualmente costruttrice di impianti per la cremazione rappresentata dalla affascinante Cristina Pecile, argentina di Tucumàn, anche se da molti anni bonaerense, e di chiara origine italiana (udinese in questo caso). Già avevamo avuto il piacere di conoscerla qualche mese addietro a Buenos Aires.
Inutile dire che la voglia di venire in Italia esiste. Rimane il problema del cambio. Diciamo, peraltro, che per certi produttori messicani la svalutazione del peso potrebbe rappresentare un’arma vincente per imporsi sui mercati europei con prezzi assolutamente attraenti per gli operatori del nostro continente (ormai a Tanexpo i ragionamenti si fanno a dimensione continentale più che nazionale). Talchè non escludiamo di veder sbarcare, nonostante le difficoltà, fra un anno a Bologna un drappello di aziende e di imprenditori messicani.
Si diceva dei forni. Non a caso le sole aziende straniere rappresentate trattavano tale gamma di prodotti. La tendenza è chiara in Messico come altrove e l’avevamo già osservata due anni fa a Leòn. La cremazione si sta espandendo, piaccia o meno a certi esagitati che abbiamo visto ed udito all’opera (convenientemente “riscaldati” da alcuni imprenditori (?) ottusi) lo scorso anno a Tanexpo, per ragioni estremamente semplici: igieniche, di costi, di spazio (saremo, o meglio, saranno, sembra, nove miliardi gli uomini su questa terra fra quarant’anni). Del resto, accanto a Matthews e Lindberg esponevano altre sei aziende locali operanti nello stesso settore. Occorre sottolineare tuttavia che nessuno degli impianti proposti potrebbe essere messo in opera in Europa per l’assenza di quei sistemi di filtrazione ormai richiesti in tutti i paesi dell’Unione compresa la Spagna, dove è stato ancora possibile qualche anno fa vendere unità statunitensi, cosa praticamente impossibile oggi. È in questo contesto che deve essere vista l’acquisizione da parte di Matthews (primo gruppo mondiale dell’industria funeraria, anche se l’olandese Facultatieve Technologies sta facendo passi da gigante in una operazione di crescita esterna e di diversificazione) della Gem di Udine, le cui qualità tecnologiche dovrebbero permettere al gruppo di Pittsburgh di posizionarsi con successo sul nostro continente dopo una esperienza, in Francia, diciamo così, poco probante.
È ben evidente che laddove la cremazione aumenta cresce il mercato delle urne. Ed effettivamente abbiamo incontrato in Expo Funeraria Mexico molti produttori di tale prodotto. Forme e materiali estremamente diversificati: legno, marmo, onice, argento, inox, rame...
Tra di essi la Urnas.com dell’amico Nino Bolaños di Monterrey che presentava, oltre alle urne in bronzo ed acciaio, anche delle interessanti placche copri loculi degli stessi materiali con già stampati portafiori, crocifisso e spazio per il nome (in Messico non esistono le luci perpetue), la Arte en Cobre di Santa Maria del Cobre (“cobre” significa “rame”) nello stato di Michoacàn, rappresentata da due simpaticissimi fratelli ultimi esponenti di una dinastia che da secoli perpetua l’ancestrale tradizione del rame battuto a mano, e la Eternity Urnas, Divisione Urne della Eternity, fabbrica di cofani della notissima, in tutto il Messico, famiglia Zapiain nella quale opera impegnatissimo l’abruzzese di Chieti Marco Gargano, sposato con una Zapiain, e che assieme alla cognata e al marito di costei (che si occupano più particolarmente dei cofani) hanno riscosso un franco successo a San Luis Potosì dopo quello di Leòn, città nella quale si trova l’azienda, di due anni addietro. Non è da escludere che la Eternity si presenti a Bologna. Ed ancora le urne in legno prodotte da un’azienda recentemente acquisita dal Grupo Ilga, che peraltro esponeva la sua vastissima gamma di prodotti spazianti dalle cappelle ai cofani e dagli equipaggiamenti per autopsia e tanatoprassi ai prodotti igienici per le imprese funerarie. Ricorderemo ancora le urne in onice e marmo della Productos de Onyx y Marmol di Puebla (città dove fra due anni si terrà la prossima edizione di Expo Funeraria) del conviviale e baffuto Jorge Alberto Robles Garcìn sempre prodigo di un eccellente tequila (ottimo quando mescolato a “jumo de toronja” - succo di pompelmo, il tutto “on the rocks”) sul suo stand, ovviamente molto frequentato dai visitatori sitibondi nei caldi pomeriggi potosini. Non potremmo concludere questa rassegna senza menzionare da un lato la Vaca Limousines di Guadalajara, da sempre pilone della fiera messicana non solo con le vetture ma anche, “dans l’aire du temps”, con una gamma di forni crematori, e dall’altro la Green Option produttrice di cofani ecologici in cartone su di uno stand estremamente attraente non solo per la qualità delle decorazioni inanimate ma anche per la presenza, gradevolissima, di ben quattro vezzose hostess di bianco vestite rappresentanti rimarchevoli del gentil sesso messicano. Molto interessanti anche i loculi modulari per urne del Grupo Spacio. Tra i visitatori, essenzialmente messicani (molto meno numerosi, questa volta, quelli in provenienza dagli altri paesi dell’America Latina; effetto della crisi globale?), abbiamo incontrato Pedro Maalouf Shaadi, che però non ha esposto le sue urne in argento, e rivisto con piacere i tedeschi Pludra, padre e figlio, alla scoperta del Messico e già pronti per Tanexpo 2010!
Ritornando ai veicoli abbiamo anche in questo caso avuto la riconferma della tendenza già osservata due anni prima. E cioè che i gusti vanno verso le grosse 4X4 (bianche o nere come già visto ad Orlando in Florida l’ottobre scorso) sia per adattarsi ai terreni non sempre agevoli che per evitare, probabilmente, quand’esse siano blindate, che i “narcos” defunti o i loro parenti vengano raggiunti da scariche di mitragliatrice rilasciate con gioia da gruppi rivali provocando un secondo decesso per i primi ed un primo per coloro che vi fossero incautamente entrati da vivi. Abbiamo così ammirato delle Hummer. Il problema è che una era vera e le altre due “taroccate”. Bastava aprire le porte ed i logotipi d’origine, di una nota casa statunitense, apparivano in tutta la loro crudele testimonianza. Avessero avuto almeno l’accortezza di cancellarli! Manco questo. Una poi era una limousine arancione di una buona ventina di metri capace di alloggiare una ventina di persone e provvista, come d’uso, di vassoi e “flutes” per lo champagne. Apertura delle porte verticale come quelle di un caccia dell’aeronautica militare. Robe da cinema. Sembra che una, gialla, sia stata venduta a Monterrey. Non si sa però a chi; se ad una impresa di pompe funebri o ad una organizzazione matrimoniale. Poco importa. Le due cose presentano qualche somiglianza. Il bello sta nell’oggetto e lo spasso è, comunque sia, garantito.
Una buona esposizione insomma, anche se ben lontana dalle dimensioni di Tanexpo.
L’accoglienza riservataci dagli organizzatori è stata, come al solito, eccezionale (grazie!) e lasciamo quindi il Messico impregnati degli odori, dei colori, dei sapori, dei suoni di quel lontano paese. I colori della terra, del cielo e degli splendidi fiori (personalmente siamo sempre sedotti dall’azzurrino dei jacaranda in piena esplosione primaverile, dalle bougainvillee e dai flamboyants).
I sapori delle sue mille preparazioni a base di mais e dell’onnipresente, in tutte le sue varietà, “chile”. Dall’habanero (il più forte nella scala di Scoville, sistema di classificazione della forza dei peperoncini), che malgrado il nome non ha nulla a che vedere con La Avana, al de arbol, dal guajillo all’ancho, dal poblano al piquìn, dal papilla allo jalapeño che una volta essiccato diventa il ben noto ed aromatico chilpotle dal sapore di affumicato. Quanto al mais, cereale sacro nell’alimentazione messicana, esso serve da base, oltre che per la preparazione di tortillas e derivati (tacos, burritos, quesadillas, ...), alla realizzazione dei “tamales”, sorta di cannolo di farina di mais, lungo una quindicina di centimetri e del diametro di 4/5, condito con ingredienti vari (peperoncini, pomodoro, pollo, ...) avvolto in una foglia dello stesso mais (di banano nella versione, molto piccante, “veracruzana”) e cotto al vapore in calderoni che i venditori ambulanti portano a spasso su carretti a due ruote tirati a mano. Per trenta o quaranta centesimi di euro, dipende dal condimento, una vera e propria chicca gastronomica.
Gli odori: quello dei fiori e degli alimenti, ma anche quello delle donne e dei bambini. Quegli adorabili bambini messicani dai capelli corvini ben pettinati e brillanti che ogni mattina, nelle loro divise immacolate, se ne vanno a scuola impettiti e sorridenti, quasi coscienti di essere l’avvenire del paese, spesso con le loro faccine che evocano lontane stirpi indie e che profumano del semplice odore dell’acqua e sapone.
E poi i suoni, la musica: quella degli onnipresenti “mariachis”, i complessini dagli ampi sombreri e dai costumi variegati su cui abbondano ornamenti d’oro e d’argento e che affollano, dal tardo pomeriggio fino a notte fonda, i “zòcalos” (le piazze principali di tutte le città) ricchi di bar, di ristorantini e di gelaterie dove si vendono le “nieves”, i sorbetti dai mille aromi prodotti, come i dolci, soprattutto da gente del Michoacàn (un po’ i zoldani o i siciliani della situazione). Tra tutti i “mariachis”, un po’ come succede in Argentina con Carlos Gardel per il tango, vive eterno il ricordo di José Alfredo Jiménez scomparso a quarantasei anni, per cirrosi epatica, nel 1973 ed inconsolabilmente rimpianto da tutta una nazione. Da pochi mesi è stato aperto nella casa natale di Dolores Hidalgo (la polverosa città culla dell’indipendenza messicana nella quale il prete Miguel Hidalgo alzò, il 16 settembre 1810, il grido che lanciò l’insurrezione) un museo interattivo. Oppure i ritmi della musica nordamericana egualmente diffusissima specie nella versione più “soft” e melodica (“balladas”). Quando non si tratti di interpreti europei o dell’ultimo idolo, non solo in Messico, ma in tutta l’America Latina, quel Marco Antonio Solis che spopola con la notissima “O me voy o te vas” e con tutto il resto del suo repertorio.
Insomma lasciamo, come ogni volta, il paese inebriati, quasi storditi, in tutti i sensi e mentre l’immenso oceano si apre davanti a noi il pensiero vola già in direzione del prossimo atterraggio in terra messicana.
 
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