- n. 10 - Novembre 2001
- Psicologia
L'ETERNA GUERRA FRA BUONI E CATTIVI
Continuando a riflettere sui fatti tragici dell'11 settembre, vorrei affrontare un tema alquanto difficile. Si tratta di una domanda che qualcuno timidamente ha posto, ma, a mio avviso, non con sufficiente forza. È la domanda che inevitabilmente si fa a chi, tra le tre alternative possibili di reazione alla minaccia terroristica (business as usual, guerra al terrorismo, perdono), ritiene che la Civiltà Occidentale avrebbe maggiormente mostrato, di fronte all'attacco terroristico subito a New York e a Washington, la sua forza e la sua superiorità se avesse reagito ammettendo le proprie colpe, perdonando l'offesa patita e invitando il mondo alla pace. La domanda suona pressappoco così: "si può chiedere di perdonare ai parenti di vittime innocenti di una violenza inaudita?".
Analizziamo prima la risposta negativa, poi quella affermativa.
Non si può chiedere di perdonare a chi soffre per la morte violenta di una vittima innocente perché, senza esprimere la rabbia giusta attraverso una adeguata punizione dei colpevoli, costoro non potranno mai superare il loro lutto, cioè resteranno arrabbiati e non potranno tornare a vivere dopo quello che hanno subito. Se consideriamo, applicando questa considerazione ai fatti dell'11 settembre, che ad esser giustamente arrabbiati per l'attentato terroristico sono non solo i parenti delle vittime ma tutti coloro che si identificano con i simboli (economici e militari) che sono stati colpiti, perdonare significherebbe impedire che la rabbia di migliaia di persone colpite nei loro affetti personali, di una intera nazione, gli Usa, e di tutti quelli che nell'Occidente si identificano con l'America ("Siamo tutti americani"), si possa tradurre in giusta punizione dei colpevoli e far superare il lutto.
Bisogna dunque individuare i colpevoli, dirigere la rabbia verso di loro e punirli, trasformando così la rabbia in giustizia. Solo in questo modo sarà possibile ottenere una pace giusta e cioè tornare alle attività pacifiche (business e shows) con la serena coscienza di vivere in un mondo che dà al buono la giusta ricompensa e al cattivo la giusta punizione.
Purtroppo questa soluzione, così apparentemente lineare, necessita, per poter funzionare, che tutti siano d'accordo sull'identità dei colpevoli, compresi gli stessi colpevoli che dovrebbero addirittura confessare.
Nel caso in questione, i colpevoli (Bin Laden e i suoi alleati) all'inizio non confessano, ma accusano a loro volta, e quando sembrano confessare (Bin Laden va in video e si vanta di quello che è accaduto mostrandosene contento) non lo fanno per dichiararsi pentiti e disposti ad accettare la giusta punizione, ma per vantarsi di aver fatto quello che hanno fatto, cioè per sostenere che erano giustificati nel farlo (Bin Laden che dice: "avete sofferto ciò che da molto tempo ci avete fatto soffrire, ma noi vinceremo perché noi siamo innamorati della morte e voi della vita").
Si può chiedere di perdonare ai parenti di vittime innocenti di una violenza per due ragioni:
a) nessuna punizione o giustizia farà tornare in vita i morti, anzi, implicando una qualche guerra, provocherà altri morti; b) il lutto per la perdita di una persona cara si può superare anche trasformando la morte ingiusta in una specie di 'sacrificio' che la rende feconda perché rende possibile qualcosa che senza quella morte non sarebbe stato possibile. Come dire, e lo hanno detto alcuni paenti di persone morte nelle Twin Towers, che se c'è una possibilità che i cari morti vivano ancora, questa non sta nell'uccidere altri, fossero pure gli stessi colpevoli, ma nel far sì che la loro morte 'dia vita' a qualcosa di nuovo (un mondo migliore) che si manifesta col fecondare e rendere migliore la vita di chi resta. Applicando queste considerazioni all'11 settembre si incorre però in una obiezione piuttosto grave: il perdono dei parenti delle vittime, dell'America e dell'Occidente farebbe cessare gli atti terroristici o Bin Laden interpreterebbe il perdono come una manifestazione di debolezza e di paura?
Come di vede, sia la risposta negativa che quella affermativa portano a conseguenze inaccettabili: una guerra senza fine nel primo caso, il rischio di consegnare il mondo ai terroristi nel secondo.
Il perdono sarebbe moralmente e socialmente auspicabile perché interromperebbe la spirale della vendetta che è alla base della guerra infinita, ma sarebbe pericoloso perché rischierebbe di essere unilaterale e quindi consegnerebbe i buoni nelle mani dei cattivi. Ora, poiché i buoni non hanno mai vinto i cattivi restando buoni, ci vorrebbero dei cattivi che combattessero in difesa dei buoni pronti a diventare buoni quando cessasse la guerra. Sarà la cosiddetta polizia internazionale che alcuni vorrebbero sotto l'egida di un'organizzazione neutrale come l'ONU? Psicologicamente tutto si riduce a questo piccolo problema: come si fa a ridiventare buoni dopo esser diventati cattivi per combattere ad armi pari con i cattivi e averli vinti? Che differenza c'è tra i cattivi che lottano per se stessi e i cattivi che lottano per i buoni? Si potrebbe dire che, siccome alla fine vincono sempre i cattivi, la differenza vera è quella tra i cattivi che sanno perdonare ed i cattivi che non perdonano! Ma se sapevano perdonare come hanno fatto a diventare cattivi?
Che sia vero quello che sosteneva mio padre e cioè che la miglior vendetta è il perdono?
Diventare cattivi è inevitabile e talvolta giusto, ma per ridiventare buoni bisogna essere generosi e vendicarsi col perdono. Credo che il mondo Occidentale sia talmente ricco che potrebbe permettersi di essere generoso e perdonare senza rischio di cadere preda dei terroristi perché in realtà è molto più forte e quindi, all'occorrenza, molto più cattivo.
Francesco Campione