- n. 8 - Luglio/Agosto 2002
- Psicologia
I vigili del fuoco di new york
EROI O VITTIME DI SE STESSI?
Avrei voluto scrivere un articolo colto e parlare della bella mostra dedicata al drammaturgo polacco
Tadeusz Kantor che ha fatto del tema della morte il tema specifico del suo teatro tanto che la sua opera viene universalmente indicata come "teatro della morte" (Firenze, Palazzo Pitti, fino al 10 agosto).
Ma ho ricevuto una lettera da Aviano nella quale A.R. mi invita a commentare la notizia apparsa su
La Repubblica del 4 agosto scorso e secondo la quale una inchiesta sull'operato dei vigili del fuoco di New York alle torri gemelle subito dopo l'attentato dell'11 settembre dimostrerebbe che questo non fu, nell'occasione, proprio così encomiabile. Vi si dice, infatti, che hanno commesso molti errori soprattutto per mancanza di disciplina, di addestramento e di coordinamento con le forze di polizia.
Basti pensare che, secondo questo rapporto, i vigili del fuoco avrebbero potuto avere dati sulla stabilità degli edifici e non avventurarsi sulle scale, finendo poi per morire a centinaia, soltanto se si fossero tenuti in collegamento con gli elicotteri della polizia che sorvolavano gli edifici. Oppure che molti dei vigili più anziani avevano ricevuto l'ultimo addestramento non meno di quindici anni prima. Oppure, ancora, che i servizi sanitari di emergenza non sono stati allertati in tempo.
"
L'immagine dei Vigili del fuoco di New York cade così in basso che forse non si dovrebbero diffondere queste notizie", dice A.R., e poi aggiunge: "Una delle cose più consolanti dell'11 settembre era l'eroismo dei vigili del fuoco; se sono morti per negligenza che eroi sono?". La prima risposta che mi sarei sentito di dare è una citazione: "
Sfortunato quel popolo che ha bisogno di eroi", ma poi, riflettendo, ho capito che A.R. qualche ragione ce l'aveva. Una tra tutte: l'idealizzazione di qualcuno che è morto ci consente di elaborare il lutto per la sua perdita molto meglio di quanto ci è possibile se a morire è, invece, qualcuno il cui comportamento sia degno di biasimo. Come si fa, in altri termini, ad accettare la morte inutile di più di trecento vigili del fuoco se non sono eroi ma funzionari indisciplinati o peggio ancora incompetenti? Questo inoltre ostacola il superamento della rabbia che eventi come quello dell'11 settembre provocano, superamento senza il quale non si può tornare alla normalità dopo una catastrofe.
È come nelle fasi arcaiche delle civiltà umane: gli dei si arrabbiano e per placarli bisogna dedicar loro dei sacrifici umani. La rabbia che si è scatenata in seguito all'11 settembre si è placata negli animi anche grazie al sacrificio umano delle centinaia di vigili del fuoco che si sono immolati.
Non credo però che sia giusto trarne la conseguenza che dobbiamo nasconderci il fatto che i vigili del fuoco morti non si sono sacrificati volontariamente e quindi occultare tutto ciò che sia suscettibile di smentirlo, come i risultati dell'inchiesta sulle loro inadempienze. E ciò perché bisogna ricordare che le civiltà più "evolute" hanno una altra via per superare la rabbia che le catastrofi provocate dagli uomini possono provocare: sfogare la rabbia individuando i colpevoli e punendoli.
Il che significa che bisogna rifiutare l'idea che il male sia come una cieca divinità da placare con qualche sacrificio; bisogna invece esser giusti, cioè attribuire la responsabilità del male a chi veramente lo ha commesso e dargli una giusta punizione.
È precisamente quello che ha detto di voler fare l'America: scovare i terroristi e punirli dovunque si trovino! Ma purtroppo non ci si sta riuscendo ed è forse per questo che per placare la rabbia abbiamo bisogno di sacrifici umani e quando si scopre che i vigili del fuoco non si sono sacrificati ma sono morti per negligenza o incompetenza reagiamo come ha reagito A.R., cioè come se ci mancasse qualcosa.
Ci si potrebbe chiedere a questo punto come si può uscire dal vicolo cieco in cui la nostra cultura sembra essersi cacciata. I sacrifici umani non funzionano, la ricerca di colpevoli per punirli giustamente secondo la regola biblica dell'occhio per occhio dente per dente non ha successo e sembra trasformarsi solo nell'individuazione di un capro espiatorio a cui attribuire tutte le colpe ma su cui si può solo proiettare una rabbia impotente. Come se ne esce? Credo che bisognerebbe ripensare alla morte, qualunque ne sia stata la causa, come ad un qualcosa che non si può sanare, qualcosa talmente irreparabile per chi lo ha subito che non c'è giusta pena che faccia tornare in vita.
L'Umanità tutta, allora, dovrebbe unirsi, al di là delle differenze culturali, nell'essere sempre contro la morte, perché tutte le strategie culturali (quella arcaica del sacrificio o quella moderna della giusta pena) sono destinate al fallimento, e se si insiste a volerle perseguire producono altra morte.
Invece di organizzarsi per combattersi e uccidersi gli uomini dovrebbero organizzarsi per combattere contro il nemico comune, la morte.
E quando, come l'11 settembre, la morte invece trionfa, per non produrre altra morte ci si dovrebbe interrogare se per caso questo trionfo della morte non sia dovuto al fatto che esso sia, a sua volta, il prodotto di un errore di strategia, cioè dell'illusione che uccidendo il nostro nemico non moriremo mai.
Francesco Campione