- n. 2 - Febbraio 2013
- Cultura
Ripensando a Primo Levi
Se questo è un uomo
“… l’urlo travolse il sole, l’aria divenne stretta,
cristalli di parole, l’ultima bestemmia detta …”
(Fabrizio De Andrè – Ballata degli Impiccati)
Siamo ancora uomini se non siamo più liberi, né domati dalle nostre passioni? Se viviamo cosi, tirando avanti relitti di noi stessi, non diventiamo altro che “morti nella realtà”.
“Soffriva da tempo di una grave depressione” hanno detto gli amici;
“Non riusciva più a scrivere”, ha affermato il suo editore; cosi, con il senno del poi, tutto si chiarisce, ma rimane indelebile il fatto che più di venticinque anni fa, l’undici aprile 1987, Primo Levi si è ucciso lanciandosi nella tromba delle scale della propria casa torinese. Era un sabato e, forse, il vero motivo nulla aveva a che fare con l’editoria.
Primo Michele Levi (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile 1987) è stato chimico, partigiano e scrittore, autore di racconti, memorie, poesie e romanzi. Nel 1943 venne catturato dai nazifascisti e, nel febbraio dell’anno successivo, deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. Il suo romanzo
“Se questo è un uomo”, un classico della letteratura mondiale, racconta le terribili esperienze vissute nel lager nazista. In molti hanno tentato di spiegare un gesto di cosi forte violenza.
Come può una persona odiarsi tanto? Era forse la vita ad essergli troppo pesante? Al suo funerale c’erano il sindaco di Torino, qualche altro personaggio locale, gli amici di sempre e una folla non molto numerosa. C’era imbarazzo, quello costante e pesante che sorprende le persone nei momenti meno opportuni quando nessuno sa cosa dire o come comportarsi. Era un imbarazzo senza pietà e senza amore, visibile nei pochi presenti e nelle assenze che, nel funerale di un suicida, dominano la scena. Mancava soprattutto un sentimento di pietas nell’indagare il motivo di un gesto così estremo. Non vi sono esperienze e motivazioni che salvino dalla furia divina ciò che, oltre duemila anni fa, fu definito
“l’atto contro natura per eccellenza”.Rita Levi Montalcini in una intervista commentò:
”… è ripugnante, inammissibile e assurdo dare per scontato che una persona cosi stupenda si sia tolta la vita, quando non vi è alcuna prova”. Cosi restiamo sempre silenziosi ed attoniti dopo aver appreso notizie di questo peso. In silenzio, considerando la nostra vita, con una immensa e dilaniante solitudine che ci rende responsabili tutti insieme: un silenzio che ci fa riflettere su una debolezza, la nostra, in cui siamo sempre pienamente coinvolti. Nella società contemporanea si asseconda troppo spesso un pessimo vizio: l’interruzione dello spazio naturale del silenzio, dell’attesa, delle considerazioni e delle assenze. La nostra mente deve essere occupata e riempita, interpretata e rassicurata da un parlare fitto. Come se ciò servisse ad evitare lo sbigottimento e lo sgomento che crea la notizia di una morte o, peggio ancora, di un suicidio. Soprattutto quando nessuno ha avuto la forza o la capacità di impedire un gesto cosi estremo. Lo spettacolo funereo a cui partecipiamo diviene volgare e la morte si fa realtà di solitudine.
Nel caso di Primo Levi, come in tanti altri, sono usciti interviste, articoli, lettere e confessioni di ogni genere; ma, compiuto anche questo ultimo atto in un teatro inesistente, non sono rimasti che brandelli: la notizia accantonata lascia nuovamente spazio alla vita quotidiana perché dei morti non si parla male
(“mortui nisi benem”), figuriamoci dei suicidi. Chissà se lo scrittore, che di morti e di suicidi ne avrà visti tanti, avesse mai pensato in precedenza a togliersi la vita: dicono che il suicidio nasca dopo aver visto la bruttura del mondo e l’assoluto del male, dall’addossarsi con dolore infinito un peso profondo, dal bisogno di una coscienza che non si può sopportare, da una vita che non riesce più a bastare a se stessa. Ecco allora questo gesto, magari furioso o stranamente calcolato e lento, meticoloso. Un gesto che reclama il silenzioso rispetto di noi tutti. Se riusciamo ad accettarlo potremo avere il privilegio di amare la persona che lo ha compiuto. Non sappiamo se Primo Levi si sia suicidato per una ragione giusta o sbagliata; in tale circostanza non esiste ragione, ma solo comprensione per l’umano gesto di un individuo che un giorno, svegliatosi, non si è più riconosciuto in se stesso. Un uomo che aveva il numero “174.517” tatuato addosso.
Gaia Lucrezia ZaffaranoSE QUESTO E’ UN UOMO
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfascia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
Primo Levi